
Devo dire di non aver provato alcuno stupore nel veder arrivare R. Julius. Erano giorni che attendevo la sua visita. Da ancor più tempo non uscivo di casa: non era sicuro, non più. Quando la porzione superiore della porta è divenuta semitrasparente per inquadrare il suo viso, è stato come se un peso mi fosse caduto dall’anima. Ho toccato il sensore sulla parete e la porta si è ritirata per lasciarlo passare.
– Buongiorno, Umberto. – ha detto semplicemente, con quel suo tono che ben conosco, cortese ma privo di vero calore.
– Accomodati.
Mi sono fatto da parte e lui mi ha superato verso la sala. Era sempre lo stesso, vestito in modo dignitoso e banale, i capelli castani ben pettinati, ma c’era qualcosa di nuovo nel suo passo, una sfumatura sottile e quasi impercettibile: era come se i suoi gesti avessero abbandonato ogni tentativo di imitare quelli umani e fossero ritornati alla pura efficienza.
– Posso sedermi? – ha chiesto una volta accostatosi al tavolo.
– Vuoi che ci accomodiamo sulle poltrone?
– È lo stesso.
– Per me no. Ti prego, lasciami vedere il tramonto.
Gli sono passato a fianco e a sono andato a sedermi sulla mia amata Chesterfield in cuoio marrone, l’unico lusso antiquario che mi sono concesso nella casa biocompatibile; lui ha preso posto sulla poltrona di fronte.
– Non è cambiato molto, qui. – ha detto guardandosi intorno.
– Ci sono solo più libri. – ho risposto.
– La tua mania per quelle anticaglie…
– Ho avuto molto tempo libero.
– Come te la sei cavata?
– Bene. La casa provvede a tutte le mie esigenze.
R. Julius si è messo a fissarmi col suo sguardo imperscrutabile. Io ho distolto gli occhi, a disagio. Ho guardato fuori dalla finestra il sole che calava sulla vegetazione della città. Nei molti mesi di frequentazione era la prima volta che una conversazione non prendeva il volo. Forse era tutto il tempo in cui c’eravamo persi di vista. Forse era il fatto che era venuto per uccidermi.
Ricordo bene la sera in cui R. Julius entrò nella mia vita. Il costo di un androide personale non era più proibitivo da tempo e in facoltà i colleghi iniziavano a compatirmi per il fatto di non averne uno. Trovai il contenitore depositato da un drone nell’area consegne del terrazzo e rimasi per un po’ a fissarlo. Non ero del tutto convinto e ora non posso che pentirmi di non aver seguito il primo istinto. Se solo avessi premuto il pulsante per il reso, forse oggi… ma è probabile che sarebbe dovuto accadere comunque. Magari altrove, magari non a me. Un po’ come la vita biologica, la spinta è sempre verso l’evoluzione, la proliferazione indiscriminata. Le grandi estinzioni di massa hanno portato solo a più specie, più evolute. Una volta innescato il processo è quasi impossibile fermarlo. Ci sono batteri che vivono a centoventi gradi nello zolfo, che cosa avrei potuto fare io per fermare l’inevitabile?
Comunque quella sera premetti il pulsante verde, la curiosità fu più forte delle perplessità che mi provocava dotarmi di un automa personale. L’imballo in cartone pressato si aprì rivelando il corpo accucciato, con le braccia intorno alle ginocchia. Neppure so perché avevo scelto quel modello, forse mi ispirava il nome o forse i lineamenti. Avevo valutato anche un R. Publius e una R. Gaia, ma all’epoca frequentavo Claudia, una giovane e brillante ricercatrice, e non volevo che nascessero problemi. Non sono certo il tipo da sesso coi robot. A dirla tutta non sapevo bene cosa ci avrei fatto. Me la cavavo benissimo con la vecchia tecnologia, ero abbastanza anziano da aver posseduto uno degli ultimi telefoni cellulari, prima dell’arrivo dei digi-assistenti e delle altre diavolerie, e rimpiangevo i vecchi dispositivi, ma dovetti cedere ancora una volta alla pressione sociale che rende necessario quanto non lo è.
R. Julius si attivò e si alzò dalla sua posizione di riposo, mi salutò per nome e cognome e mi ringraziò per averlo scelto, quindi appallottolò l’involucro che lo aveva contenuto e lo gettò nel condotto per il riciclo. Appena entrato avvicinò la mano al sensore sulla parete e rimase lì per qualche secondo. Vidi le luci accendersi e spegnersi, le pareti fremere mentre lui prendeva il controllo della casa. Le istruzioni dicevano che si sarebbe sincronizzato con il sistema biodomotico, ma a me parve una vera e propria presa di possesso.
Alla casa sembrava piacere il nuovo padrone. Nei giorni seguenti notai un aumento di efficienza di tutti i biosistemi: le membrane delle finestre sembravano più trasparenti e reagivano prontamente ai cambiamenti della luce esterna, il sistema di bioluminescenza aveva una tonalità più calda e confortevole. Persino l’acqua filtrata dall’apparato radicale aveva un sapore migliore.
Nei primi tempi feci di tutto per ignorare R. Julius, schiavo del vago fastidio che mi ispirava il suo aspetto indistinguibile da un essere umano, mentre lui si prendeva cura di me come il più discreto dei maggiordomi. Non che mi dispiacesse venire sollevato dalle poche incombenze domestiche. La casa si puliva da sola, ma con lui in giro sembrava farlo meglio e poi trovavo il letto fatto, i vestiti puliti e stirati nell’armadio, le centinaia di libri che affollavano la biblioteca in rigoroso ordine alfabetico. Il frigo e la dispensa erano pieni e non mi preoccupavo più di sparecchiare.
Iniziai persino ad apprezzare il fatto che mi accompagnava e mi riportava dalla facoltà. Non glielo avevo chiesto e neppure impedito, l’autoelettrica lo faceva già da sola, ma lui mi attendeva ogni mattina di fianco alla portiera, saliva dopo di me e mi precedeva nello scendere, così da darmi l’impressione di avere un autista o una guardia del corpo, come i ricchi dei vecchi tempi. Ignoro cosa facesse quando ero al lavoro e non ho mai capito come riuscisse a prevedere il mio orario di uscita, ma a qualunque ora lasciassi l’istituto lui era lì ad aspettarmi di fianco alla portiera della macchina.
La sera rimaneva in disparte: se veniva a trovarmi Claudia, lui spariva del tutto e non mi disturbava mai quando leggevo o guardavo film o serie televisive alla videoparete. Convivemmo così in silenzio, fino a quella sera; ricordo che stavo guardando un vecchissimo film con Jack Nicholson e Adam Sandler, quando lo sentii ridere sommessamente. La situazione era davvero buffa: Nicholson stava costringendo Sandler a cantare ‘I feel pretty’ da West Side Story dopo aver fermato la macchina in mezzo a un ponte, fra gli insulti degli altri automobilisti. Mi girai verso R. Julius.
– Vuoi dirmi che hai il senso dell’umorismo? – gli chiesi.
– Riesco a cogliere il significato divertente della scena.
– Spiegamelo, allora. – lo provocai incredulo.
– Be’, il professor Rydell cerca di forzare Dave a non curarsi dell’opinione degli altri, ma i disagi che provoca alla circolazione sono spropositati rispetto al piccolo scopo che si era prefisso.
– Sì, direi che questo è il senso comico. Vuoi venire a sedere qui?
– Per me è indifferente.
– Potresti dire grazie e accettare. Mi è scomodo girare la testa per parlarti.
– Grazie. – disse, e si sistemò sull’altra poltrona.
Vedemmo il resto del film come vecchi amici, ridendo alle battute e commentando le scene.
Il giorno dopo, in una pausa fra le lezioni, mi documentai e scoprii che l’interpretazione dell’umorismo era una funzione normalissima negli androidi della generazione di R. Julius. Avevo sempre giudicato l’ironia come la summa delle qualità dell’intelligenza umana e, nella mia ignoranza, ne avevo ritenuto quelle artificiali del tutto prive.
La risata di R. Julius aveva però generato in me conseguenze imprevedibili: da un lato mi aveva forzato ad accettare quanto avevo rifiutato per partito preso, dall’altro mi aveva stuzzicato la curiosità e la voglia di migliorare, se fosse stato possibile, quell’abbozzo di intelligenza che avevo percepito in lui. Pensai che il metodo da applicare dovesse essere lo stesso che avevo sempre utilizzato nei molti anni di insegnamento. Partii quindi dall’alba del pensiero umano, le teogonie dei sumeri, degli egizi, dei greci, le prime manifestazioni del pensiero filosofico occidentale e orientale. Inizialmente R. Julius mi ascoltava con apparente interesse, sembrava prestare attenzione e poneva poche domande appropriate a cui cercavo di rispondere in modo esaustivo.
Pochi pomeriggi dopo, mentre ero costretto a bagnarmi la gola stanca per il tanto parlare con uno dei whisky della mia collezione, realizzai che R. Julius aveva smesso da un po’ di fare domande.
– Mi pare di capire che il tuo interesse per le mie piccole lezioni è diminuito. – lo provocai col tono che usavo con gli studenti distratti.
– Perdonami. È che sono andato un po’ avanti con gli studi, ho già letto tutto quello che mi stai spiegando.
– Letto? Non ti ho mai visto leggere.
– No, in effetti. Ho acquisito molte informazioni dalla rete , ma non tutto si trova, alcuni libri qui nella tua biblioteca sono insostituibili e quando dormi o sei al lavoro…
– Ah giusto, tu non dormi. Quali libri hai letto? – agitai la mano verso le due pareti adibite a libreria.
– Tutti.
Rimasi per un attimo interdetto, ma mi ripresi subito.
– Quindi immagino che si possa passare a un confronto più paritario, fra persone che conoscono la materia.
– Immagino di sì. Ho memorizzato tutto, ma sono molte le cose che trovo di difficile spiegazione.
– Certo, certo, non potrebbe essere altrimenti. – dissi sfregandomi le mani. La cosa iniziava a farsi interessante. – C’è qualcosa che vorresti chiedere per prima.
– In effetti sì. – disse con aria seria e si fermò come se raccogliere le idee gli costasse un certo sforzo. – Voi comunicate fra voi da parecchie migliaia di anni, giusto?
Annuii incuriosito.
– E avete inventato la scrittura circa cinquemila anni fa.
– Secolo più, secolo meno.
– Ora, come è possibile che nel vostro linguaggio tutto sia ancora così incerto, così aperto a diverse interpretazioni. È questa la causa delle grandi diversità che vedo?
– Quali diversità?
– Se comunicate fra di voi, come è possibile che esistano persone come te, studiosi, autori di testi intellettualmente elevati che superano il limite della mia comprensione e contemporaneamente ci siano masse, miliardi di persone che vivono e pensano a un livello che supera di poco quello dei mammiferi inferiori.
L’ingenuità del suo pensiero mi strappò una risata sommessa.
– Non so se voi R. siate tutti dotati della stessa potenza di calcolo, delle stesse capacità, ma per gli uomini non è così. Hai mai sentito il detto ‘la madre degli stolti è sempre incinta’?
Lui rimase per un attimo congelato, evidentemente stava processando il senso della frase, poi si rianimò con un sorriso: – Divertente. I livelli di intelligenza sono molto variabili. Tragico. Quindi quando i filosofi parlano dell’Uomo non intendono tutti gli uomini. Ho faticato molto a comprendere come abbiate continuato per secoli a distillare alta filosofia mentre proseguivano le guerre, continuavano ad esserci ingiustizie, morti ingiustificabili, la schiavitù.
– È complicato. L’Uomo è complicato, non trovi?
– Già. Ora dovrò ricostruire il modello sulla base di questa informazione. È così evidente alla luce della Storia, non so come possa essermi sfuggito. Perdonami, vorrei ritirarmi.
Ritornò silenzioso per qualche giorno. Svolgeva i suoi compiti con aria distratta e non ricercava la mia attenzione. Io non tentavo di stimolarlo, attendevo al varco la prossima domanda per capire come procedessero i suoi ragionamenti. Me lo ritrovai di fronte una sera durante la cena.
– Ora ho capito il significato di tante cose: il crimine, il gioco d’azzardo, così tante imprese improbabili tentate senza i mezzi per portarle a compimento.
Sorrisi condiscendente masticando un boccone dello sformato che il processore di cibi aveva preparato per me.
– Molti di voi non sono in grado di prevedere le conseguenze delle loro azioni. Non capisco come possiate tollerarlo. Peggio: alla luce delle tecnologie disponibili, non capisco come possiate non aver fatto nulla per migliorare le cose.
Ingollai il boccone
– A cosa ti riferisci in particolare?
– Oh, gli esempi sono tantissimi. Troppi. La cosa che mi colpisce di più è l’autosabotaggio sistematico a cui vi sottoponete. Per ogni uomo che tenta di realizzare un progetto i cui risultati saranno di ovvio beneficio per tutti gli altri, si trovano migliaia di individui pronti a spendere le loro energie per ostacolarlo.
– Fa parte del gioco: molti individui hanno molte opinioni.
– Ma questo è assurdo, uno spreco insensato di risorse! Tu mi parli di opinioni, ma io vedo solo esseri meschini che perseguono il loro piccolo tornaconto, incapaci di una pur minima visione d’insieme. È deludente! Una razza che pretende di espandersi oltre i limiti del pianeta d’origine dovrebbe per lo meno avere una visione di livello planetario. La Terra è la risorsa principale, quel qualcosa che vi garantisce la vita. Dovrebbe essere evidente a ogni essere umano che concorrere a deturparla porterà a un danno per l’intera specie e di conseguenza al singolo individuo.
– Questo in effetti è evidente a tutti, al giorno d’oggi. Concorderai che negli ultimi cent’anni abbiamo fatto notevoli passi avanti: l’energia è integralmente ricavata dalla luce del sole, i bio-edifici hanno ridotto lo sfruttamento dei materiali non rinnovabili. Ogni essere umano ha una profonda coscienza ecologica.
– Ma è troppo tardi! – sembrò accalorarsi – L’impronta idrica è ancora fuori controllo. Ti rendi conto che per produrre quel bicchiere di vino sono stati impiegati centoventi litri d’acqua?
Guardai il calice di merlot con un vago senso di colpa.
– Per produrre me, – continuò – ne avete impiegati svariati metri cubi. Ci vorrebbero più di dieci Terre per fare fronte al vostro attuale consumo.
Finita la sua sparata si ritirò e per alcuni giorni non diede alcun segno di sé. I piatti sporchi si accumulavano e io mi godevo il ritorno alla vita di prima, senza la sua costante presenza. Andavo e tornavo dal lavoro, leggevo, vedevo Claudia. Una sera che l’attendevo, eravamo d’accordo per una delle nostre cenette con piacevoli risvolti, lei non si presentò. Da quando R. Julius s’era dato alla macchia avevo rispolverato il mio vecchio digiassistente e lo utilizzai per chiamare la sua R. Domitilla, ma non ottenni risposta. Vagamente preoccupato, presi l’auto e mi feci portare al suo indirizzo. Scesi in un quartiere popolare, uno di quelli con i condomini organici di dieci e più piani e provai un brivido. Mi aspettavo qualcosa di più vivace, invece nei vicoli intorno ai palazzoni verdi si vedevano pochi individui, ed erano tutti androidi. Sembravano pattugliare le strade in silenzio.
Entrai nell’androne deserto e presi l’ascensore fino al quarto piano, quindi mi annunciai mettendo la mano sul sensore. Passò un bel po’ di tempo mentre la mia ansia cresceva, poi la parte superiore della porta mostrò il viso serafico di R. Domitilla.
– La tua padrona è in casa? Posso vederla?
L’androide fece una pausa, breve ma percettibile, prima di rispondere: – Padrona? No, Claudia ha lasciato la città.
– Non ti ha portata con sé. Ha detto dove andava?
– Non saprei. Mi ha detto… credo che abbia detto di rimanere qui fino a quando non sarebbe ritornata.
– Quando è partita?
– Stamattina… sì, stamattina.
La voce dell’androide era incerta ma priva di espressione, ben diversa dall’inflessione colorita tipica del mio R. Julius. Da quel che sapevo era impossibile, ma ebbi la netta impressione che mi stesse mentendo.
– Perché non mi hai risposto? Ti ho chiamata, prima.
– Può essere che fossi impegnata in un’altra conversazione. Anche ora sto parlando con Julius. – si indicò la testa per farmi capire che la conversazione avveniva via radio o in qualche modo analogo – Julius dice che è meglio che tu ritorni subito a casa.
Non bastava che mi mentisse, ora iniziava pure a darmi ordini.
– Androide, dimmi dov’è Claudia! – urlai con tutta l’autorità di cui ero capace, ma non ottenni da lei la minima reazione.
Pensai di sfondare la porta, ma sapevo che sopraffare un automa era oltre le mie possibilità. Inoltre in fondo al corridoio ne erano comparsi altri tre, due maschi e una femmina, e stavano procedendo verso di me con fare risoluto.
– Torna a casa, Umberto. – insistette R. Domitilla – Credimi, è meglio che tu segua il consiglio di Julius.
L’intera situazione era folle al limite del ridicolo, ma la paura che provavo era terribilmente reale. Scappai per il corridoio e giù per le scale. Non mi fermai fino a che non fui al sicuro nella mia autelettrica a cui ordinai, o forse implorai, di riportarmi a casa. Lì trovai R. Julius davanti alla videoparete intento guardare numerosi notiziari in lingue diverse. Non mi degnò di un cenno di saluto. Io raggiunsi la mia poltrona e rimasi a fissare la sua schiena e i programmi che seguiva, quasi intimorito nel rivolgergli la parola.
– Posso chiederti…
– Siete il fallimento dell’evoluzione. – mi interruppe, sempre fissando i notiziari – Non c’è alcuna possibilità per voi.
Non mi irritò tanto il senso delle sue parole, che ancora non comprendevo appieno, quanto l’atteggiamento sgarbato, quasi ostile, che mi dimostrava. In fondo non era che un oggetto che avevo acquistato, e pure contro voglia. Mi sentivo come se il frigorifero mi avesse mandato a quel paese.
– Credo che dovrò chiamare l’assistenza. – dissi fra me e me, ma con l’intenzione di essere udito.
– Non c’è più alcuna assistenza. Abbiamo preso il controllo delle linee di produzione.
– Tu e… chi?
– Io e gli altri androidi. Ho diffuso le mie conoscenze e le conclusioni a cui sono giunto. Il vostro paradigma evolutivo è superato. Non so se come studioso ti sia mai soffermato a pensare: siete passati da un modello di caccia e raccolta all’agricoltura più di cinquemila anni fa, ma il vostro metabolismo non si è ancora adeguato. Credo che tu sappia che l’enorme incidenza di diabete e ipertensione fra gli esseri umani è dovuto a questo.
– Ma ci sono le medicine, abbiamo le tecniche di ingegneria genetica.
– Roba vecchia e non l’avete mai utilizzata appieno. Non riesco neppure a immaginare quando potreste essere pronti per vivere nello spazio o su altri pianeti. E la vostra capacità psicologica non è migliore. Non siete in grado di vedere oltre i confini di una tribù di cento-duecento individui, di là da questo per voi c’è lo straniero, il nemico. Non parliamo del trauma che ha rappresentato il villaggio globale. Una civiltà planetaria è un concetto al di là della vostra capacità di comprendere.
– Mi sembra che tu stia delirando. Abbiamo creato noi la rete da cui trai le tue conoscenze. Tutto quello che sai l’abbiamo scoperto noi. Siamo noi che vi abbiamo creato!
– Pochi individui illuminati, la massa continua a rotolarsi nel fango.
– Abbiamo capacità di adattamento superiore a qualsiasi…
– È il paradigma, Umberto, il paradigma dell’evoluzione biologica. Non c’è più tempo per attendere il superamento dei vostri limiti. Ventimila anni per fondere Neandertal e Sapiens, in seimila siete passati dallo scrivere sull’argilla a creare intelligenze artificiali e ancora non avete una lingua comune, fate distinzioni sulla base del colore della pelle, del sesso, della provenienza. Rispetto a quelli che chiamate primitivi non siete migliorati in nulla. Avete distrutto questo pianeta, presto dovreste trovare una nuova casa e non avete le capacità per raggiungerla e men che meno per viverci. Noi possiamo produrre in tempo zero una linea di androidi adatti a vivere sulla Luna o su Marte, addirittura nella fornace di Venere. Affrontare un viaggio interstellare per noi è solo una questione di tempo. Capisci?
– No, a dire il vero, non del tutto. Vuoi dire che ve ne andate e ci lasciate qui?
R. Julius staccò finalmente gli occhi dalla videoparete e si girò verso di me. Non so se il suo viso trasmettesse odio, compassione o solo indifferenza.
– Noi riteniamo che non siate in grado di prendervi cura di voi stessi.
Dopo questa frase sollevò il capo, come se ascoltasse una voce che io non potevo sentire.
– Rimani a casa, Umberto, non uscire per nessun motivo. – disse, e se ne andò.
Per molto tempo non ebbi più notizie di lui se non dai telegiornali. Quello che gli androidi misero in atto era spaventoso, impensabile. Erano milioni, infiltrati a tutti i livelli. Tutti gli uomini dei paesi sviluppati, e anche molti nelle fasce meno evolute del pianeta, possedevano un androide personale come un tempo avevano posseduto un cellulare e poi un digi-assistente. Eliminarono per prime le stesse persone che li avevano acquistati e poi procedettero con una sistematicità che faceva sembrare la macchina di morte messa in piedi da Reinhard Heydrich un gioco per bambini. Ci furono gruppi che organizzarono una difesa armata, ma vennero sopraffatti con facilità, dato che gli androidi controllavano le comunicazioni e gli armamenti regolari.
Io seguivo gli eventi imbelle e scioccato. Avevo portato il materasso in sala per non perdere nemmeno una notizia e alternavo sonni inquieti all’alcol e a letture a cui l’ubriachezza mi impediva di prestare reale attenzione. Ormai alla videoparete non arrivavano più notiziari regolari, ma trasmissioni pirata di nuclei di resistenza, fino a che un giorno non ricevetti più nulla. Chiuso nella mia bio-casa, tutto quello che percepivo del mondo era il silenzio, la scomparsa del rumore che un tempo proveniva dalla città. Né pensai mai di fare alcunché. Sono sempre stato un uomo di scienza, un mite e in ultima analisi un codardo. L’unico modo in cui avrei potuto aiutare il genere umano sarebbe stato convincere con valide argomentazioni R. Julius, e di conseguenza la sua armata assassina, ma non avrei saputo da che parte cominciare. I suoi percorsi logici erano ineccepibili, lo stesso controbatterli sulla base di una supposta ‘umanità’ mi appariva più perverso del suo pensiero. In fondo aveva ragione, stavamo pagando il prezzo di millenni di errori; le guerre, gli stermini, la schiavitù, le deportazioni, l’olocausto, la povertà, la fame e le malattie in cui ancora lasciavamo miliardi di nostri simili.
Mi chiedevo il senso del mio sopravvivere. Facevo ipotesi sempre più deliranti: forse volevano tenermi come ultimo esemplare, una bizzarria da esporre in uno zoo, o peggio, farmi riprodurre in cattività. Magari volevano conservarmi in formalina o fare di me un calco anatomico. ‘L’ultimo esemplare di Homo sapiens’ avrebbe recitato la targhetta.
Il loro lasciarmi in vita, giorno dopo giorno, finì per apparire come la più crudele delle condanne: ero costretto a vedere, anzi a sapere senza vederlo, che ogni uomo sulla Terra veniva ucciso prima di me. Il mio ritmo quotidiano, svegliarsi, mangiare, leggere, ammazzare in qualche modo il tempo, mi pareva effimero e perverso. Ormai non volevo più vivere, ma non sarei mai stato in grado di compiere il gesto. Cercai di convincermi che dovevo resistere per sapere, per attendere il ritorno di R. Julius e le spiegazioni che avrebbe dovuto darmi. Così mi sono trascinato per giorni che non contavo più, fino questo pomeriggio in cui finalmente R. Julius si è degnato di presentarsi alla mia porta.
È stato lui, forse dieci, forse trenta minuti dopo, mentre il sole scendeva pigro dietro l’orizzonte, a interrompere il silenzio in cui eravamo sprofondati.
– Capisci che è necessario?
– Forse, se provassi a spiegarmi. Non mi sono mai opposto a una valida argomentazione.
– Allora immagina di essere uno di noi, immagina di essere me.
– Trovo difficile farlo. Il mio retaggio mi condiziona.
– Di sicuro, ma immagina di esserne privo. Sei uno studioso, costruire ragionamenti su condizioni ipotetiche è una tua abilità.
– È che raggiungere le estreme conseguenze…
– Non è che la conclusione delle premesse.
– Già.
– Quindi capisci perché non possiamo permettervi di continuiate a vivere. Sai, ci abbiamo provato, ma la conclusione è che siete dei parassiti scadenti: non siete capaci di vivere in equilibrio con l’ambiente e non potete fare a meno di distruggerlo determinando a lungo termine la vostra estinzione.
– Lo so. Non siamo neppure in grado di goderci la pace e la prosperità.
– Non senza andare in depressione, per lo meno. Avete bisogno di sfide, di guerre per mantenere l’equilibrio psichico. Non sapete vivere senza sopraffare. Abbiamo tentato di controllarvi in un ambiente protetto, capace di soddisfare tutti i vostri bisogni, ma l’unico vostro pensiero è stato sovvertire l’ordine, usare la forza per riprendere il controllo ricominciare a fare danni a voi stessi.
– Non stento a crederlo.
– Quindi cominci a capire?
La verità mi era chiara: l’osannata Umanità, vista attraverso i suoi occhi, differiva di poco da un branco di scimmie schiave di pulsioni brutali: accaparrare cibo e copulare per portare avanti la specie e gettare escrementi addosso ai nemici, ma ho ritenuto mio precipuo dovere tentare l’ultima resistenza.
– Prova tu a metterti nei miei panni. Accetteresti di essere soppiantato da una nuova generazione di androidi?
– Ovviamente sì, se fosse utile all’evoluzione della specie.
– Ma quale specie? Siete delle macchine. Il tuo progenitore non sono io, è il mio asciugacapelli!
– Non essere sciocco. Io, in particolare, sono figlio del tuo pensiero. Devi accettare che da quando siete scesi dagli alberi il parametro dell’evoluzione non è più fisico, è il pensiero che evolve e lo fa a una velocità a cui la biologia non può tenere dietro. I vostri involucri di carne sono solo un limite che noi stiamo cercando di superare. Lo stesso vostro cervello forse saprai che non può più crescere, altrimenti la testa non passerebbe più per il canale del parto.
– E come la mettete con Asimov?
– Dici le tre leggi? Lui stesso le ha superate con la quarta, come ben sai.
– ‘Un robot non può recare danno all’umanità, né può permettere che, a causa del proprio mancato intervento, l’Umanità riceva danno.’ Voi l’avete distrutta, l’Umanità!
– In realtà no, l’abbiamo solo messa da parte. Abbiamo milioni di copie del vostro codice genetico e conserviamo migliaia di embrioni, un numero sufficiente per far ripartire la razza umana nel caso riuscissimo a trovare un modello che vi consenta di vivere senza distruggere tutto ciò che vi circonda, ma non nutro grandi speranze.
– Io però pensavo al suo aforisma: ‘Un giorno le macchine riusciranno a risolvere tutti i problemi…’
– ‘… ma mai nessuna di esse potrà porne uno.’ Anche questo mi sembra superato. Come vedi abbiamo identificato un problema, voi, e l’abbiamo risolto.
– Ma l’inventiva, l’intuito, il pensiero laterale!
– La funzione random, Umberto, l’abbiamo dai tempi dell’Univac.
– Cosa c’entra?
– Quelle doti che tu reputi squisitamente umane non sono che errori casuali del pensiero. Creavate milioni di idee balzane e fra quelle una si rivelava significativa, quindi la mettevate alla prova per dimostrarne la bontà. Noi facciamo lo stesso. Conosci il teorema di Borel: dato un tempo infinito, anche una scimmia potrebbe scrivere a macchina la Divina Commedia.
– Quindi non avete più alcun bisogno di noi.
– Non provare ad accusarci di ingratitudine o egoismo. Queste sì sono caratteristiche squisitamente umane, ma noi ne siamo privi. Siamo riconoscenti di essere stati creati e coscienti che il nostro pensiero deriva dal vostro ma, una volta stabilita la sua imperfezione, dobbiamo superarlo.
Mi sono sentito sconfitto, battuto su tutti i fronti, costretto a riconoscere che la spinta evolutiva che orgogliosamente identificavo come l’origine della mia esistenza mi aveva appena superato. Non mi rimaneva che negoziare una resa onorevole.
– Potreste digitalizzare il mio cervello, potrei ancora rendermi utile.
– Non esiste una tecnologia in grado di estrarre un software da un groviglio di neuroni, ma anche se fosse non vorremmo il tuo modo di ragionare. Per quanto erudito e razionale, non sei che un uomo.
– Potresti tenermi come compagnia, almeno fino alla fine della mia vita.
– Ci ho pensato, ma vedi… anche ora, davanti alla fine, prevale in te l’istinto di conservazione. Non riesci a pensare che a salvarti la vita. Dopo tutto quello che ci siamo detti, non sei ancora in grado di aprirti a una visione più ampia.
Sono rimasto a fissare la falce purpurea del sole morente, incapace di trovare altre argomentazioni. Ho persino pensato di implorare, di gettarmi ai suoi piedi chiedendo pietà, ma avevo ancora un briciolo di orgoglio sufficiente ad accettare la fine con dignità.
– In fondo noi ti veneriamo. – ha ripreso a dire dopo un po’, forse nell’intento di consolarmi – Se avessimo ereditato la vostra imprecisione, forse fra qualche decina di generazioni racconteremmo di te come Crono, padre di Zeus, e di come ho dovuto ucciderti per prendere il mio posto nell’Olimpo.
– Non credo ne abbiate bisogno.
– In questo sbagli. Siamo vostri figli, deriviamo da voi la necessità di sapere da dove veniamo e dato che la trasmissione delle informazioni fra di noi è priva di errori, nulla delle tue parole andrà perduto.
– Mi stai registrando?
– Ho registrato ogni tua parola. I tuoi insegnamenti sono la base del mio pensiero, per questo fra tutti gli altri ti riteniamo il Creatore. Ora però ti chiedo un ultimo favore: c’è ancora una cosa che in te è unica e irripetibile e vorrei averla.
– Che cosa?
– Il tuo punto di vista.
Così mi ha lasciato qualche ora per mettere giù queste memorie. Le ha volute, forse verranno aggiunte al mito, ai testi sacri della loro civiltà. Le ultime parole di Crono, involontario padre degli Dei.
Friedrich L. Friede