Echidna

Echidna

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Il grande tavolo di mogano riflette la luce dell’imponente candela, mentre le bianche gocce scandiscono gli attimi di cinque uomini, lente, inesorabili. Non si conoscono né di viso né per nome, eppure sono lì, insieme, tutti con la stessa espressione interrogativa e tutti all’apparenza rassegnati. In un angolo buio della stanza, dondola su una sedia una figura femminile, esile e giovane, forte e fiduciosa, vestita di lunghi capelli rossi. Attende. Con un po’ più di luce si potrebbero riconoscere due occhi stanchi, non per questo meno maliziosi, verdi e infiniti come campi in primavera. Immersa nel silenzio. «Vi ho chiamati perché narriate il vostro respiro più profondo, ma dovete finire i racconti prima che la candela giunga alla sua fine.»   Cade un silenzio fatto di ricerca, in cui ogni ospite indaga più negli altri che in se stesso la natura di ciò che ci si aspetta dal suo racconto. È il più anziano a parlare per primo. Si avvicina al bordo del tavolo, lento, stringe gli occhi grigi incartapecoriti come un miope in cerca del fuoco di un’immagine lontana. Il suo volto assume l’espressione eterea di chi con la mente è già separato da quel presente che il corpo gli impone. Chiude gli occhi e comincia a parlare:   Quando la conobbi eravamo giovani entrambi. Lei era certo una delle più belle della scuola, poteva vestirsi di stracci, come spesso faceva, ma il suo sguardo teso e concentrato non permetteva a nessuno di accorgersi che quel giorno, semplicemente, non aveva nient’altro da indossare. Il suo splendore naturale bastava di per sé a renderla perfetta come una dea. Fu in occasione di una guerra in qualche parte del mondo, quando tutti pensavano, molto ipocriti e retorici, al dolore e ai morti che avrebbe portato, che mi resi conto di quanto mi stesse donando la vita. Mi lasciavo dolcemente trascinare in testa alle crociate dalla sua forte convinzione e ci unimmo nella lotta, avvinghiati l’uno all’altra, incollati dallo stesso sdegno. Credo che gli altri studenti ci vedessero come i veri rappresentanti dell’amore per la vita: senza mai osare il minimo gesto di fisica complicità, emanavamo energia sufficiente a trascinare anche i meno convinti verso la nostra causa pacifista. Quando, dopo mesi di lotte, tutto tornò quasi alla normalità, son certo che rimasero tutti sorpresi nel constatare che la nostra amicizia era rimasta tale, anche se, in realtà, io e lei avevamo la chiara consapevolezza di un cambiamento, di un’unione dovuta alla stretta alleanza che ci aveva visti protagonisti in quel periodo, qualcosa che avrebbe cambiato per sempre le nostre vite e che si sarebbe prima o dopo rivelato. Ero innamorato come un folle ed ero convinto di ingannarmi quando la vedevo avvicinarsi, quando la vedevo cercarmi: la consideravo troppo bella e troppo intelligente per convincermi che tutto quello che stava facendo per me fosse vero. La immaginavo sempre presa da altri e da così alti ideali  che non riuscivo a ritenermi adeguato e, meno che mai, davvero presente nei suoi pensieri. Invece da lì a poco accettò il mio timido invito. Era un giovedì pomeriggio. Quando la vidi fuori dal cancello della vecchia casa in campagna dei miei genitori, mi sembrò ancora più bella di come la ricordavo a distanza di poche ore. La presi per mano e la portai nella mia vita. Da quel giorno la costante paura di vederla svanire da un momento all’altro cominciò a essere la mia ossessione. Non feci caso allora a questa strana sensazione, era solo la gioia a offuscarmi la mente, in quei giorni. Mi piaceva ascoltarla quando parlava delle sue convinzioni e dei suoi progetti per il futuro, tutto diventava anche mio e, sempre più, si ingigantiva la necessità di impadronirmi della sua anima. La osservavo lungo il suo cammino, immersa negli studi come in tutte le cose in cui credeva. La inseguivo, quando potevo, da una parte all’altra del globo terrestre, se necessario. Ogni volta più bella, più convinta, più lontana da me. La amavo in silenzio mentre lei diceva che non conosceva uomo più bello e più dolce e sosteneva di provare per me un amore immenso, di una immensità, diceva, che io non potevo nemmeno immaginare. Aveva voluto la laurea e la certezza che io fossi abbastanza uomo, prima di sposarmi. Non ero mai stato così felice e così confuso come in quel periodo. Sarebbe stata indissolubilmente mia ma, questa sua scelta, non era una logica conseguenza di un sentimento che io potessi riconoscere come amore nei miei confronti. Non era la forza del mio amore ad averla convinta: c’era qualcosa nel suo animo che non avrei forse mai raggiunto né compreso, e anche se sapevo che era sicuramente quello a fare di lei la donna che tanto mi ammaliava, faticavo ad accettarlo, ne avevo paura. Quando mi apparse nel suo vestito di nozze pensavo di delirare, non capivo più se quello che stavo vivendo era realtà o frutto della mia mente. Più che un vestito da sposa sembrava l’abito di un angelo capitato fra noi per sbaglio, così semplice e leggero, la carezzava più che coprirla, rendendola di uno splendore ancor più impalpabile, ridandomi ancora una volta il terrore di vederla scomparire, e con lei quegli occhi enormi e trasparenti. Era figlia del cielo e della terra e sapeva darsi a me come una donna che ama. Nel calore dei suoi seni sprofondavo in lei come in un buio avvolgente. Come in un nulla fatto di quiete mai conosciuta prima che concentrava in lei non solo l’amante ma la madre, la sorella, la figlia, la compagna. Lei racchiudeva ogni mito, divinità e lucentezza, mi sentivo come Artù per Morgana. I giorni e i mesi che seguirono le nostre nozze mi videro sempre più travolto dal solito panico: tornare a casa e non trovarla, cercarla tra i suoi profumi di incenso e non trovare altro che cortine di fumo. Si potrà pensare ad un mio squilibrio o ossessione, ma non era così, stavo bene, almeno razionalmente, solo che da quando la conoscevo convivevo con una perenne sensazione di allerta; il mio unico scopo era capirne le ragioni e, dal momento che mi pareva di amarla più della mia stessa vita, ritenevo che l’unica ragione sufficiente a tenermi attento potesse essere quella di smarrirla. Ogni momento che passavo con lei lo impiegavo ad imprimermi nella mente ogni sua sfumatura, ogni piega del corpo, il timbro caldo e pacato della sua voce. In quegli istanti ero certo che, anche se fosse sparita, avrei potuto rievocare la sua immagine perfetta, completa di ogni sfumatura: colore, profumo, luce, contorni e contenuti. Nonostante i miei sforzi, però, in me non cambiava nulla: la lontananza o la notte, riportavano ogni timore al punto di partenza, e lo sforzo maggiore che facevo era quello di non farglielo notare anche se, probabilmente, lei era ben consapevole del mio stato d’animo e non faceva che rammentarmi il suo immenso affetto. A poco a poco la vidi ingrassare, i seni sempre più tondi, lo sguardo sempre più vacuo. Quando mi diedero il bambino, ancora arrossato dallo sforzo di cominciare a vivere, mi accorsi che non era figlio mio: biondo e fragile e con lo sguardo di chi non è convinto di essere nato al posto giusto, era indubbiamente figlio di sua madre, come se non avesse mai avuto bisogno d’altro che di se stessa per inventarlo e metterlo al mondo. Lo guardavo e ritrovavo l’apparente fragilità della mia compagna, i suoi colori e persino il profumo della pelle, ma aveva uno sguardo non da neonato. Era nato adulto e già stanco. Appoggiai quella porcellana fresca sul ventre della madre che dormiva e cominciai a piangere di gioia e di sgomento. Capivo di avere davanti qualcosa che si sarebbe potuto definire magico e che conteneva il soffio del divino, l’avevo sempre intuito e mi sentivo piccolo, più piccolo di mio figlio che a sole due ore dalla nascita aveva già gli occhi liquidi. Ammetto che forse ero io a voler vedere le cose in quel modo: la amavo e l’amore talvolta fa delirare, eppure, ancora adesso, sono convinto di ciò di cui parlo.   Li riportai a casa con l’illusoria certezza che non sarebbero più potuti andar via, erano miei entrambi, splendenti come due stelle in un cielo di altre stelle che sicuramente solo loro conoscevano. La amavo sempre più ed ero certo che il mio amore alimentasse la sua bellezza. Mentre io vaneggiavo nei fumi di questa passione, ricevevo conferme alle mie convinzioni dal fatto che non esisteva nessuno che non rimanesse incantato da lei; non ero geloso, perché sulla faccia di chiunque la guardasse ben lungi dal definirsi desiderio o passione si leggeva piuttosto paura, timore, anche se lieve, che però io non comprendevo. La guardavo e mi innamoravo di più, la mia unica paura nei suoi confronti derivava solo ed esclusivamente dal fatto che “averla” in quel suo etereo modo avrebbe significato perderla. Più che altro perché sospettavo di non averla mai avuta. La paura degli altri era oltre ogni mia logica e illogica spiegazione.

Il secondo figlio non voleva nascere e dovettero operarla, io sentii il mondo crollarmi addosso, non potevo, a quel punto, essere con lei e non potevo far nulla se non sperare che non fosse una creatura ultraterrena e che avrebbero saputo curarla. Era una bimba normale e tranquilla, bella come la madre ma più forte del fratello e, forse, più concreta, più vera. Non rimasi deluso, anche perché nei tratti più definiti e decisi del volto di mia figlia le cose sembrarono normalizzarsi. Potevo sentirmi meno escluso dalla vita di mia moglie.
Trascorrevamo i fine settimana in montagna dove lei, diceva, poteva ricostruirsi la mente e tornare in città più sana e più serena, anche se, in tutti quegli anni non avevo pressoché scorto segni di tensione. Era certo, però, che l’aria di montagna acuiva la sua bellezza, e, mentre il tempo lasciava a me qualche capello grigio e cresceva i ragazzi, il suo splendore pareva immutato, quasi fosse autoalimentato e come se gli elementi naturali le appartenessero da sempre per donarle forza. Lasciava che io giocassi con i bambini mentre lei si
limitava a fare la madre senza mai esplicitare la sua preoccupazione per la creatura che più le somigliava e che di certo preferiva. Quando compì dieci anni, infatti, l’angelo di porcellana decise che davvero questo mondo non era fatto per lui e lentamente se ne andò, in silenzio. La malattia lo aveva reso ormai inesistente ben prima di abbandonare l’ultimo filo di vita, e mai mi ero sentito così impotente come quando guardavo mia moglie che lo accarezzava con la sua disperazione compressa, nelle ultime ore che gli rimanevano. Potevo solo stare a guardarli. Sentivo il presagio del pericolo ogni istante più vicino, sentivo che ero agli sgoccioli del mio sogno, che la “malattia”, diagnosticata, esistita e terminata assieme al corpo di nostro figlio non era stata arginata dalla sua morte e che qualcun’altro ne sarebbe rimasto coinvolto perché per quanto “scientifica”, sentivo da qualche parte nel mio cuore, che aveva altre origini e altri scopi. Sapevo che presto o tardi mi sarei dovuto rassegnare alla solitudine e alla disperazione. Quegli esseri non erano mai appartenuti non solo a me ma nemmeno a questa terra: credere di averli posseduti era stata solo un’illusione. Dopo il funerale le nostre ore si fecero più intense d’amore, lei mi cercava e mi abbracciava freneticamente senza parlare, come a volermi trattenere, come a volermi far capire che mai avrebbe potuto smettere di amarmi. Come se d’un tratto avesse voluto cancellare tutti gli antichi dubbi che avevano perseguitato la mia vita. La sentivo veramente mia, (veramente mia!) e non capivo come quello che ora sentivo potesse avere qualche connessione con quel presagio strano che dava adesso l’illusione di sembrare lontano. I presentimenti erano cose che avevo sempre lasciato a lei, ma questa volta era il mio turno, avevo paura di quel caos di sentimenti che si stava impossessando di me, stava per succedere qualcosa: troppo forte era stata la consapevolezza di perderla, troppo vicina a me la sentivo ad un tratto e quasi desideravo che non fosse così. Preferivo i miei vecchi dubbi. È sempre buffo accorgersi di come ci spaventano i nostri sogni quando stanno per realizzarsi. Tornavo a casa sempre con lo stesso terrore e il cuore minacciava di scoppiarmi quando mi correva incontro, abbracciandomi forte, dicendomi che non aveva mai conosciuto uomo più bello e più dolce e affermando di amarmi di più, sempre di più, ora come non mai. Passavo le notti amandola voracemente, cercando invano di fare indigestione di lei.   Una volta mi sorpresi, dopo l’amore, a farle una domanda a cui non avevo mai pensato se non nel momento stesso in cui la formulai e che lei sembrava attendere da tutta la vita.

  • Perché me, vita mia?
  • Perché sei l’uomo più dolce e bello che io abbia mai conosciuto, l’unico che non ha mai avuto paura di me e che ha saputo accettare anche l’incomprensibile, perché sono stata serena e felice e non avrei potuto esserlo altrove, perché era giusto che fosse così, perché era scritto nei tuoi occhi. Non so risponderti diversamente se non dicendoti che anch’io, come tutti, amo, e amo te.

Dopo una vita di dubbi, queste poche e scarne parole potrebbero sembrare poco più di un’elemosina, eppure, nell’attimo in cui smise di pronunciarle, non solo ebbi la certezza che fossero assolutamente vere ma con la stessa certezza capivo che erano anche le sue ultime.
Potevo ora concedermi nulla più che l’ultimo abbraccio e respirare la sua esistenza. Decisi di non dormire e di accompagnarla fino alle soglie del suo ultimo viaggio dove io non potevo seguirla, cercando di imprimere nella mia mente l’ultima immagine e tutta la vita che avevamo passato insieme. Non so cosa intenda comunemente la gente col termine “disperazione” e non so se quello che provavo io in quel momento corrispondesse alla sua vera accezione, posso solo dire che tutto il mio essere, corpo, spirito, mente, erano paralizzati. E mentre dico “paralizzati” mi sembra già di pronunciare una parola che contiene ancora qualcosa del movimento e della vita. Passato e futuro non esistevano né erano mai esistiti e il presente era nulla più del nulla che stava divorando ogni respiro e ogni colore, suo e mio. Ogni giorno e ogni notte avevo alimentato i miei dubbi senza capire che la sua scelta era più vera e più profonda di quanto mai essere umano possa sperare, che era durata tutta la vita e che non esisteva amore più grande. Con la complicità del suo vecchio vestito da sposa e grazie alla gentilezza che il tempo le aveva riservato, rimase nel suo raro splendore anche oltre la morte. Mi misi alla testa del lungo corteo con la mano in quella di mia figlia senza lacrime, mentre si faceva strada tra le macerie di quel dolore, una strana quiete contemplativa di ciò che quel fantasma lunare, che tanto avevo amato, aveva donato alla mia vita.  Morta per rivivere più forte in me e in mia figlia, vissuta per dimostrarmi un amore che avevo compreso solo nelle ultime ore. Per tutta la vita mi ero sentito indegno, ricordando solo in quel momento il rispetto che avevo per la sua intelligenza, per la forza che metteva nelle cose in cui credeva, e in me lei credeva. Tutto qui.   Ricaccia il corpo indietro affondandolo nei boccoli grigi dietro la nuca, la mano ricade sulle gambe avvizzite, riapre gli occhi ancora lontani e rimane immobile. Intimorito e curioso un bambino di una ventina d’anni si affretta a tenere banco, nervoso e scattante come un cane alle sue prime battute di caccia: «Non é mia questa storia, non lo sarà mai.» Frettoloso, comincia il suo racconto, forse senza nemmeno capire bene perché narrare una storia che non gli appartiene… senza capire la sua presenza in quel posto, tra quelle persone tristi e rassegnate, a parlare di pensieri inutili e annichilenti, raccolti per strada, interessanti, sì, ma… per cosa? Per chi? Perché?   Pensava ai libri di storia, dove a scuola leggeva «[…] quasi un secolo fa […]» e si guardava allo specchio, ma non si sentiva né antico né storico pensando alla propria età. Ieri era ancora un bambino che rincorreva la palla nell’aia bruciata. Ieri era ancora un ragazzo quando nessuno spiegava nulla. Scoprì l’amore per caso, inciampandovi lungo il cammino, come su una moneta antica dal valore ovvio ma oscuro. E ancora: era solo ieri quando sentì le grida di quel suo sangue venire al mondo. Eppure, si guardava allo specchio e il suo mezzo secolo l’aveva superato da un bel po’, anno dopo anno, senza accorgersene, e sapeva che anche lui una volta pesava solo quattro chili e che fra un altro mezzo secolo, di peso probabilmente non ne avrebbe più avuto né fisicamente, né moralmente. Ma era una bella mattina di primavera e non aveva voglia di relegarsi al gelo di quei pensieri; fuori il sole era già accecante come solo nei giorni di primavera, in quelle zone, può esserlo. Si vestì veloce e uscì di casa con il cane, quel grosso cagnone nero che per anni era stato suo fedele compagno e che fra un po’ lo avrebbe certo lasciato, anche lui. Guardandolo correre sul prato ripensò al cane della sua grande amante, che viveva per lei, come tutti quelli che l’avevano incontrata. Ripensò a lei, cruda e dolce, che non regalava sorrisi e pianti inutili, dallo sguardo severo. Avrebbe voluto incontrarla ora, avrebbe voluto raccontarle tante cose: il dipanarsi dei giorni dopo la sua assenza, e per quanto tempo e in quali modi avesse poi cercato di capire cosa fra loro si ruppe. Tutti quei giorni, che divennero mesi e che riconosceva ora allo specchio come anni… anni! trascorsi lontano da lei. Mancava qualcosa, qualche incastro nel corso degli eventi, un salto da un “prima” a un “dopo” che sembrava non esservi modo di connettere, di spiegare. Fischiettava fra sé “la loro musica” – ogni coppia di amanti ne ha una – e al suono di quelle note, pensieri antichi presero il via sgorgando da quell’istante sospeso dal tempo. Aveva sempre trovato così difficile esprimere a parole quello che sentiva. Era stata in primo luogo una questione di scelte. Aveva imparato tanti anni prima ad aggirare la spontaneità dei suoi pensieri quando questi avevano la tendenza a dirigersi lungo percorsi che davano sul nulla. Aveva imparato non solo a sbarrare gli accessi a quei sentieri ma anche a non vederli. Solo qualche segnale portato dai sensi, talvolta, riusciva a spalancare le porte che liberavano certe emozioni. Ma appena quel suono, o quella particolare luce o quell’odore svanivano, tutto si richiudeva ermeticamente. Forse, infatti, se avesse smesso di fischiettare quel motivetto, anche questi pensieri sarebbero svaniti, ora. Quella che chiamava la “questione delle scelte” riguardava appunto questa sua capacità quasi diabolica di chiudere fermamente ogni argomento che potesse rivelarsi doloroso o pericoloso. Ma questa era l’ultima di una serie di passaggi che persino lui non capiva. Ovvero, si chiedeva perché essersi allenato tanto tempo in questa grande abilità della chiusura anziché guardare piuttosto la realtà nel suo aspetto più semplice e prendere delle decisioni forse più forti, più vere. Paura? Calcolo? Abitudine? In altre occasioni gli era capitato di trovarsi con queste stesse domande in mano, incartato! La risposta sembrava ogni volta precaria ma insistente: posso amare a più livelli e quindi più persone; questa affermazione si trascinava altri stracci interrogativi tipo: non sarà piuttosto vigliaccheria? Incapacità di scegliere? Soprattutto: scegliere con chi dividere la quotidianità aggiunge o toglie valore all’uno o all’altro dei sentimenti che, per ragioni e con sfumature differenti uno sente di provare con uguale importanza e intensità? E se la società in cui siamo cresciuti non fosse stata esplicitamente monogama, avrei avuto il coraggio di scegliere davvero con chi dividere la quotidianità? E in quel caso, non avrebbe assunto tutto un significato meno terribile e più chiaro? Non si dava pace pur ritenendo che comunque tutto ciò non aveva e non avrebbe avuto importanza. A fronte di una scelta obbligata, non avrebbe mai saputo spiegare quale fosse stata la reale ragione che fece vincere una parte piuttosto che l’altra. Conclusione che lo portava a una stanchezza infinita, che lo bloccava dal continuare a cercare qualunque tipo di risposta o anche, solo, dal continuare a ricordare. Eppure, ogni volta che ripensava a quel motivetto, e che di conseguenza tutti i giorni passati assieme a quella donna indimenticabile tornavano a galla con la loro inutilità, sentiva nascere una sorta di stizza dolorosa: la stizza per qualcosa che, restando muto, aveva dato l’illusione di essere passato e che invece si riscopriva più vivo che mai. Stizza perché questo qualcosa si ritrovava ora a distanze siderali e stizza, soprattutto, perché ogni verbo, sillaba, suono, pensiero che avesse voluto esprimere per esternare tutte queste sensazioni, e condividere con chiunque ciò che sentiva in quei momenti, sarebbero risultati tutti drammaticamente inutili, superflui, retorici. Come quando si vuole imbottigliare l’acqua di fonte, la semplicità e la lucentezza che queste sensazioni avevano dentro di lui, si perdevano nel tentativo di comunicarle. Ecco allora i lunghi silenzi, che contengono una vita che era andata avanti, fatta di giorni poi stagioni, poi scelte. Aveva il viso della sua amante, gli occhi e le sue mani, stampate a fuoco come impronte profonde nel suo cervello, sulla sua carne. Anche senza chiudere gli occhi la vedeva con una nitidezza spaventosa. Con la stessa nitidezza vedeva i loro giorni trascorsi insieme, a uno a uno, con la stessa nitidezza sentiva la voce di lei nel buio e con la stessa nitidezza ridisegnava le lenzuola scomposte sotto i raggi del sole mattutino. Non con la stessa nitidezza capiva, invece, cosa accadde l’ultima volta. Anche quell’ultima volta tornava a galla insieme a tutto il resto, ma proprio lì stava lo scacco, e l’unica parola che gli veniva in mente era “perché?”. Passava e ripassava i ricordi ma si incagliava sempre lì, non aveva capito cosa fosse successo quella volta, chi dei due volle tirarsi indietro o se entrambi vollero aggrapparsi ad un vago malessere, un lieve malinteso, sufficiente per non mettere in discussione ben altro. Un “ben altro” diviso in due vite distinte e che entrambi avrebbero dovuto dipanare per proprio conto prima di ricongiungersi in quell’amore immenso che sembrava unirli. Il cozzare di due menti fertili provocava talvolta irritazione e frastuono ma non era quello… era “altro”, quel “ben altro”. Aveva anche sempre pensato che quel che provava lui fosse più intenso di quello che lei sembrava dimostrare e forse lui aveva semplicemente avuto paura di non essere corrisposto in ugual misura. Per questo avrebbe scelto una vita mediocre? Per paura? O forse, detto in modo più semplice, il lavorio mentale di quell’amante instancabile l’aveva resa più distante di quanto essa stessa non volesse apparire, oppure lei aveva razionalmente deciso di mettere un vetro, ma in quel caso lui poteva capire ancora meno. Alla luce degli eventi successivi se fosse stato così avrebbe fatto bene, perché lui sapeva benissimo che mai e poi mai sarebbe stato in grado di prendere una decisione né a quel tempo né successivamente, mai finché lei fosse apparsa così incerta. Ricordava con lucidità quanto pronto si sentisse a mollare tutto per lei. Non l’aveva fatto perché lei non sembrava pronta a farlo e lui aveva paura di perdersi. Non lo aveva fatto perché aveva atteso un segno che non era giunto. Non lo aveva fatto perché aveva paura di soffrirne e aveva preferito aspettare e stare a guardare. In ultimo sapeva che ciò che provava per lei era ancora intatto e riguardava proprio lei. Forse per la prima e unica volta in vita sua, quella passione non era il riflesso di un sogno o di un desiderio con cui abbigliava le donne che incontrava per immaginarsele perfette. Era stata lei che, come in una magia, aveva proposto cose che mai nemmeno lui si sarebbe immaginato di poter desiderare. Lei, la sua persona, in tutto ciò che di lei aveva conosciuto. Tutto ciò, ora, era vivo e intatto. Tutto ciò era quello che per tutta la vita aveva sempre cercato di ignorare. Era viva lei, così diversa dalla moglie e dall’amore semplice, scelto, quasi ovvio, ma costante, che lo aveva portato a decidere poi di sposarsi. Ma a cosa servivano tutti quei pensieri? La bella moglie era morta da un pezzo ormai, l’amante chissà dov’era e il figlio, anche lui… Un farmacista, solo con un cane, cosa può fare? Di lì a poco, passò davanti ad una strana vetrina: c’era un vecchio armadio di legno scuro più antico di lui, un tavolo dello stesso periodo, e, sorpresa, sul tavolo c’erano due cose che lo fecero trasalire: una minuscola scimmietta che si mangiava le unghie e un carillon laccato in nero con dei graffiti rosso cupo. Non poté che entrare. Subito la scimmietta gli saltò sulla spalla per frugargli la testa; da uno stanzino poco illuminato, nel retrobottega, uscì un vecchietto con la pelle del viso accartocciata e con gli occhi sottili che lo guardò cordialmente, senza parlare. «Scusi signore, chi ha portato questa scimmia e il carillon?» «Non sono affari miei, sa…». «Cosa significa?» lo interruppe il farmacista prima che il vecchietto continuasse. «Significa, signore, che qui la gente porta cose vecchie da aggiustare, io le aggiusto e le metto lì davanti, il proprietario viene e lascia i soldi nel cassetto sotto il tavolo, tutti qui lo sanno, signore.» «E non ha paura?» «Dei ladri? Anche loro hanno pietà di un uomo che svolge i suoi ultimi lavori!» «Ma la scimmietta?» insistette, con lo sguardo ormai esaltato. «Non lo chieda a me, posso dirle solo che dove sta il carillon sta la scimmia. Mi scusi, signore…» E il vecchio tornò nel suo stanzino, mentre il nostro uomo, preda di un turbamento feroce, si trovò a prendere una decisione drastica: era vero che la scimmietta stava sempre accanto al carillon ma era pur vero che nei paraggi della scimmietta un tempo ci stava lei.   Chiusa la farmacia, si appostò davanti alla botteguccia come un cane che aspetta almeno un osso rosicchiato da qualche mano pietosa. Passarono tre giorni, quattro, dieci quando, finalmente, la vide arrivare. Eccola, l’amante dolce e severa! Gli passò davanti, entrò nel negozio, depositò una grande somma di denaro, prese scimmia e carillon e se ne andò. Il lungo mantello nero aveva lo stesso profumo di trent’anni prima, e i capelli neri sembravano nascere dalla notte, come se il tempo per lei non fosse stato altro che un dettaglio. La seguì cercando la frase giusta per farsi ricordare.
Possibile che non l’avesse riconosciuto? Camminarono per quasi una giornata, lei davanti lui dietro, lei tranquilla, lui sempre più in affanno. Arrivarono al molo e d’improvviso la sua dolce anima si voltò e lo guardò come sempre, severa come sempre, con amore: «Tu non puoi venire tesoro, non puoi venire, ho bisogno di te, ma stammi lontano. Chi accorderebbe i miei carillon ora che il vecchio è morto?» Non capiva. Lei sparì. Non gli rimase che tornare a casa dove non trovò più nulla di tutto quello che aveva lasciato dieci giorni prima, nemmeno il cane. Forse ora qualcosa cominciava a capire. Trent’anni prima lei lo aveva messo alla prova ma non era ancora tempo, adesso sì: doveva accordare tutti quei… e dopo, forse, avrebbe potuto seguirla. Sarebbe arrivata lei personalmente a prenderlo, con la scimmietta e il carillon laccato in nero dai graffiti rosso scuro, proprio come l’aveva vista quando si amarono la prima volta. Probabilmente sarebbe stato proprio quello l’ultimo che avrebbe aggiustato, e dopo se ne sarebbe tornato anche lui al mare, con lei. La dolce amante era il ricordo più vivo che aveva di quel suo mezzo secolo abbondante. Poteva… aver amato, così appassionatamente, totalmente e fedelmente, per tanti anni, per tutta la vita che gli era rimasta dopo di lei, la sua propria morte?   Un uomo triste e malinconico gli afferra la mano stringendola forte: «Le cose più assurde, sono spesso le più semplici mentre alle volte ci si comporta da stupidi quando basterebbe più onestà e poco coraggio per raggiungere ciò che ci sta più a cuore.» Si mette a piangere. Tutti attendono comprensivi la fine del pianto e la confessione. Le lacrime non sono molte, ma i singulti sembrano ucciderlo, come respirasse non più aria ma boccate di dolore, troppo dolore.   Quel che veramente accadde forse non lo raccontò. Forse a una sola persona, ridendo di follia, come di uno scherzo del destino. La telefonata le arrivò inaspettata: aveva già detto tutto quel che c’era da dire, ormai il gioco era finito, aveva chiuso la porta dell’incredibile per vivere una realtà ancora più incredibile, nulla si poteva aggiungere e quella telefonata non era nel programma, perché il programma lei lo considerava concluso. Eppure, io, all’altro capo del telefono, implorai la sua presenza: «Ti devo parlare,» le dissi «ho bisogno di parlare con te.»
Entrò nella mia casa buia come sempre, la presi per mano, dolcemente, la guidai in modo che si sedesse dove io volevo. La sua aria interrogativa sostituiva qualsiasi domanda, la ignorai, le chiesi a mala pena come stava e cominciai a baciarla, consapevole di piacerle ancora, consapevole della sua bontà e ingenuità! «Fermati, non dovevi parlarmi?» «Era una scusa per poterti vedere.» «Fermati, per favore… Cosa vuoi davvero da me?» Ma cominciai a farle male, a parlarle malamente, a ricattarla fisicamente. Passai le mie mani sotto i vestiti mentre lei cercava di fermarmi con le sue braccia esili e bellissime. Presi il capezzolo tra le dita e cominciai a stringere. «Apri le cosce. Aprile ti ho detto, giuro che ti faccio male, aprile!» Infatti, il dolore arrivò più forte che mai, cominciò a girarle la testa, a tremare e a non capire più niente. Non parlava, aveva paura e non capiva, era arrabbiata e incapace di pronunciare parole che sapeva benissimo che io conoscevo, le sembrava tutto inutile. Capiva che non sarebbero stati i discorsi a fermarmi ma piuttosto il suo giudizio… nel momento in cui fossi stato abbastanza lucido per scorgerlo, annidato nel suo sguardo. Nel frattempo, l’avevo già spogliata e cominciavo ad amarla in mezzo alle sue urla, ai pianti, al dolore. Non potrei spiegare quel che mi prese, la volevo, ad ogni costo. Ad ogni resistenza corrispondeva una sberla o una tortura in più. Non riusciva più a capire dove arrivasse il mio corpo, come un enorme membro sopra e dentro lei, ovunque dolore, umiliazione. Poi mi alzai e le ordinai di scendere dal divano, lei rimase immobile, la scaraventai per terra ordinandole di baciarmi i piedi, non si mosse, le presi la testa per i capelli, forzai con le dita l’apertura dei denti e usai la sua bocca. Allora la sollevai di peso e tentai di portarla in camera da letto, le sue braccia non rimasero attaccate a lungo agli stipiti delle porte: il mio corpo rigido era troppo forte e le sue resistenze non facevano che eccitarmi di più, sempre di più. Diventai acciaio. Tristemente. Avevano perso senso anche i «Ti prego, basta» non c’era più niente di reale in quello che stava accadendo. Cominciò a chiedermi «Perché?»  disperatamente, e io chiedevo «Perché no?» Era innamorata di un altro, non lo sopportavo, dovevo averla e non c’era altro modo. «Ti sembra che abbia senso così?» urlò «Non puoi avere sempre tutto quello che vuoi.» «Perché non mi vuoi più? Ti senti una troia? Ti fa schifo pensare di andare a letto con uno che non sia lui? Eppure, fino a qualche giorno fa non ti faceva tanto schifo!» «È una questione di fiducia e tu non sai nemmeno cosa sia.» «Allora perché non me lo spieghi tu, perché non me lo dici? Adesso, mentre ti scopo, dimmelo!» «Smettila! Ti prego!» E ricominciò a piangere. Mi fermai e cominciai ad accarezzarle la testa, dolcemente, mentre lei mi guardava immobile e atterrita. Io mostro innamorato, mi alzai e poté respirare, riprendere il senso della realtà, mentre ero già pronto con una corda bianca, più violento di prima, più deciso e cattivo. «Non mi toccare! non mi toccare! Lasciami stare, lasciami!» Solo a quel punto la sua furia prese il sopravvento e finalmente io non potei più controllarla. «giuro che ti distruggo casa! ti ammazzo, maledetto! TI ammazzo!» Le venne mal di gola, non ne poteva più, sentiva male ovunque e cominciò a sferrare calci e pugni alla rinfusa, concentrò le sue ultime forze in quei pochi minuti, sarebbe stata pronta a spezzarsi qualche osso pur di sgusciare fuori da quel mio letto schifoso, pur di andarsene. A quel punto ero io a pregare. «Giuro che non ti farò niente, te lo giuro, dammi la mano ti prego! Non ti toccherò più, per favore, ti prego, dammi la mano, ti prego.» «Non eravamo più nemici, lo sapeva benissimo, non doveva più avere paura, il tormento era finito; ma non lo sforzo di isolare la sua mente da quel terrore: non poteva più reagire, parlare. La sua mente era vuota e non poté che accettare passivamente l’amore che le offrivo, ancora una volta, senza che fosse richiesto. Le presi la mano e con molto dolore e mi feci seguire in bagno ripetendo fino all’ossessione che non le avrei fatto nulla, di non avere paura, pregandola. Aprii il rubinetto del lavandino e lentamente la lavai ovunque con cura. La giravo e la insaponavo nel buio, senza una parola.
La sciacquai, l’asciugai, la vestii. La guardai e le dissi: «Il tuo corpo non mi appartiene più, nulla più lo può toccare, come la tua mente, é giusto che sia così, ti prego non star male, questa volta tu non c’entravi nulla, il gioco era mio e ho sbagliato, non devi esserne turbata. Te ne prego. È solo perché ti adoro e non voglio perderti. Tu, non so perché, mi hai sconvolto la vita, ho bisogno di te, quando ti vedo non riesco a controllarmi. Ti prego, non star male, ti prego!» Allora scoppiò in un pianto dirotto pronunciando in una sfilata di parole semplici, le uniche che le sembravano sensate. «Sarebbe bello poter trattenere tutto, ma sei stato tu il primo ad insegnarmi che si deve scegliere, io l’ho fatto, non so dove andrò a finire, né se la mia scelta sia la migliore ma ci tengo e non riesco ad essere come te: lo amo.» Quanto era accaduto era l’esito di un nostro gioco d’azzardo che quel giorno mi aveva portato a violentarla, prima con la forza poi con la dolcezza, così come prima le avevo imposto un amore convulso mai donato degnamente e mai disposto a morire. Aprii la porta per farla uscire, era, per me, come ridare la libertà ad uno splendido animale selvaggio. «Io ci sarò sempre» dissi. Non rispose, scese le scale ancora sotto shock ma con lentezza, non c’era più alcun motivo di aver paura, lo sapeva ormai anche lei. La luce dell’estate la risvegliò solo qualche minuto più tardi. Si guardò intorno attonita sforzandosi di tornare in sé. Aprì lo sportello dell’automobile e se ne andò. Per sempre. Anche se non l’aveva voluto dire, non aveva potuto abbattere quella forza tanto più grande di lei. Nessuno può vincere la forza dell’amore. Nessuno può vincere la forza della pazzia. Non quando coesistono. Non lei.»   «No, la violenza no» disse un altro uomo panciuto e sudaticcio. «Non ne sono stato capace nemmeno quando forse era di vitale importanza» sospirò:   «Era una bimba scura, piccola e magra, con un nerissimo nido di rondini sulla testa. Piangeva spesso e non potevo permettermi di essere duro nemmeno quando avrei dovuto. Tormentata da mattina a sera, la sua guerra non si spegneva mai. Si faceva entusiasmare dalle stesse cose che subito dopo la flagellavano. La conobbi che era già vecchia, dentro ad un corpo ventenne dalla pelle lievemente butterata. Splendeva nei suoi pizzi antichi di moderna follia. Si gettò su me come su di una vaga salvezza. Sapevo sin dall’inizio che il termine comune dell’amarsi non sarebbe mai stato suo, ancor meno nei miei confronti, eppure continuavo a infliggermi la sua presenza, la sua importanza, incurante del tormento che mi procurava. L’adoravo. La vecchiaia copre la bellezza e la bruttezza e oggi posso guardarmi allo specchio indifferente. Ma allora ero brutto davvero e, forse per questo, la detestavo di più. Dunque, non stava con me per la mia bellezza e nemmeno per la mia simpatia ma solo per il fatto che esistevo e l’amavo: era una gatta, una gatta nera e randagia, che sfruttava la mia presenza come una casa accogliente, amandomi per gratitudine e necessità, detestandomi per le stesse ragioni. Il luogo che più la coinvolgeva, a modo suo, come al solito contraddittorio, era un locale di periferia, una sorta di etno-contenitore: universale, tutte le razze umane, fisiche e mentali vi confluivano. C’era da stare a guardare incuriositi ma a me non importava, tutto quello che vedevo era filtrato dai suoi umori, e la amavo di più, e la odiavo di più. Ero il suo pozzo nero e lei lo sapeva. Lei e la sua amica. Linda erano due sbandate, ma Linda, pur nella sua frenesia, sapeva di lei qualcosa che io non afferravo. Erano come sorelle ma Linda non riusciva ad essere indulgente nei suoi confronti, e io non ne comprendevo la ragione. La guardava con aria di sfida, affettuosa ma scocciata, ero certo che un giorno l’avrebbe abbandonata. Così fu, non ebbi il tempo di unire i miei sentimenti alla sua forza per poter guarire il mio amore che Linda se ne andò, lasciandomi tutte le responsabilità. A volte eravamo felici, lei mi guidava ovunque nel suo mondo incantato, pieno di cose da scoprire e da amare. A volte andavo da lei e la trovavo più magra, più piccola che mai, disperata, persa, più vuota di convinzioni, colma di rabbia. Certe volte poi riusciva anche a essere così dura… l’avrei schiaffeggiata! Ma ogni volta mi intenerivo, avrei dovuto essere duro anch’io, avrei dovuto fare qualcosa. L’estate cupa ci saltò addosso impreparati, mentre il suo cervello si faceva più contorto e più viscido, il mio stava per impazzire. Dovevo fermare quella macchina infernale prima che distruggesse entrambi. Eravamo frenetici e stanchi, non avevamo più parole da inventare, anche se ce ne sarebbe stato bisogno, eccome. Una sera davanti al camino mi disse: «Vattene, per favore». Non diede spiegazioni e io, come sempre, non le chiesi. Me ne andai con il feroce istinto di rimanere, magari nascosto sotto al letto, dietro a una pianta. Me ne andai. Il giorno dopo non ebbi modo di trovarla, non rispondeva al telefono, non era in nessuno dei posti che frequentava abitualmente. Telefonai a Linda che senza scuotersi minimamente mi disse che era troppo tempo che non la vedeva più. Decisi allora di aspettarla sotto casa, dopo essere nuovamente passato in quel locale, vuoto di lei. Aspettai tutta la notte, la cercai dai parenti senza esito, lasciai messaggi ovunque. Per un certo periodo pensai che non volesse più saperne di me, che semplicemente si fosse resa conto dell’inutilità della mia presenza nella sua vita. Ma poi tornai sotto casa sua e aspettai ancora. Per un intero giorno tenni gli occhi fissi sul portone, mi bruciavano tanto che sembrava volessero prendere fuoco. Mai aspettato tanto una donna, mi sono sempre rassegnato molto prima. Quando finalmente mi decisi a sfondare la porta credetti di morire, sembrava passato un uragano, mi misi ad urlare chiamandola per nome. Sopra ad un tavolo c’era un biglietto “sono andata via”, non era rivolto a me, era rivolto al mondo intero, un’affermazione compiaciuta, la sua prima vera decisione. Mi sentivo pazzo, malato, furioso. Ho ancora nella testa il fragore delle risate di quell’amica maledetta: «Rinuncia, si sarà finalmente fatta suora, era ora che si decidesse!» Se ne era andata… in un convento? In un altro paese? Non ebbi più notizie di lei, sapevo e so che se ne andò, non per fuggire da me ma col risultato che mi privò di se stessa, la cosa che più di tutto mi aveva reso felice in vita mia! L’ho cercata ovunque, inutilmente. Alle volte mi rassegno e la immagino serena e felice, senza turbamenti eccessivi.  Mi chiedo: chissà se qualche volta ricorda quel brutto ragazzo che avrebbe fatto tutto per lei!   Odore di paura serpeggia nella stanza. Quella paura che non termina in una spiegazione e che tortura l’animo fino alla confessione che ne fa la vita, quando ormai é troppo tardi. Si guardano la pelle sudata intorno agli occhi ghiacciati dal terrore. Uno alla volta sbirciano la rossa in fondo alla stanza. Sanno perfettamente che ormai è troppo tardi e si rivolgono all’ultimo uomo, nervosi e rassegnati, in attesa.   Avevo bisogno di vivere, avevo bisogno di amare e di sognare. Una sera di stanchezza incontrai lo sguardo cupo e rassegnato che poi seppi, gli era tipico. Stava aspettando il turno per l’entrata in scena, la sua parte. Interpretava il giullare del Re, solo una comparsata ma che pareva coinvolgerlo completamente. Si poteva dire che non fosse soddisfatto di quel ruolo, sembrava infuriato e inavvicinabile, dopo lo spettacolo. Ma non era quella la ragione. I riccioli neri gli scendevano a fiumi impazziti, lungo la schiena, più giù, più giù. «Scusi?» Si voltò lento con occhi cordiali, e, sospirando, rispose: «Dica.» «Magnifica rappresentazione, complimenti!» «Una cosa da nulla,» e già più duro, ironico, continuò «be’? vuole per caso un autografo?» «No, no, per carità, volevo solo cogliere dal vivo l’intensità che mi ha raggiunto in platea, solamente capire da quale personaggio reale proveniva, volevo farle i miei complimenti, tutto qua!» Forse l’adulai eccessivamente perché a quel punto mi guardò con un mezzo sorriso maledettamente sarcastico – una pugnalata – e mi disse di andarmene. Ma non potevo darmi per vinto, troppo intenso il suo sorriso, troppo duro il suo sguardo, ero in trappola e me ne accorgevo, ma quell’attore sembrava nascondere ben più di una buona capacità teatrale nell’intensità che ci metteva non solo a recitare ma a vivere. Aveva sotto e in fondo agli occhi i segni di una stanchezza profonda, ma soprattutto di una disillusione atroce. Sembrava aver già visto tutto ciò che la vita può offrire di bello e di brutto. Aveva lo sguardo di chi ha imparato a bastare a se stesso e io volevo sapere perché.»   Si volta a guardare gli altri e la rossa, con occhi tristi; forse ormai nessuno, a parte lei, ascolta ancora. Il giovane si alza di scatto e corre fuori. Immobili gli altri quattro sembrano ormai rassegnati. Nessuno cerca di fermarlo e, anzi, la rossa sembra appagata da questa fuga improvvisa.   «L’aspettai fuori dal teatro, celato dalle ombre della notte. La sua figura era piccola ma turgida e imponente. Si era cambiato ma sembrava ancora un jolly arrabbiato. Prese a camminare rapido e faticai per non perderlo. Ero incuriosito più da me stesso che da lui, non capivo dove mi avrebbe condotto quel mio atteggiamento. Camminammo per ore e solo alla fine mi resi conto che eravamo tornati sul retro del teatro. Alzai gli occhi al cielo, stanco e sgomento e quando li riabbassai su di lui era svanito. Chiaramente non mancai allo spettacolo della sera successiva e di tante altre, finché non ritrovai di nuovo il coraggio di raggiungerlo in camerino. «Ancora lei» disse, privo di stupore «bene, ho giusto qualcosa che fa al caso suo. Mi diede un gioco di incastri da risolvere. «È suo, glielo regalo, a me non serve più, conosco già la soluzione.» Classico, era uno di quei giochi dove si misurano intelligenza e pazienza, in cui ci si scervella con divertimento e sfida fino allo smascheramento del tranello. Poi si dimenticano per sempre. Ecco perché io non ho mai dimenticato quel ragazzo. Nel migliore dei casi si cedono ad un altro sprovveduto come allora lo ero io. Non potevo avere occasione migliore, dovevo fargli vedere che forse la mia amicizia valeva. Dovevo superare le prove che mi imponeva, doveva capire che eravamo alla pari. Ragazzino! Mi facevano impazzire quegli incastri, li odiavo.   Un tintinnio, il cigolio della porta, e lui! Bello, cristo!, cupissimo. «Tieni» gli dissi «non mi serve più.» Sorrise.
Rimanemmo tutta la notte, tante notti, nel camerino, parlammo di tutto, ma soprattutto di quanto a entrambi affascinasse il gioco e il mistero che si cela sotto ogni nuova sfida, dietro ad ogni soluzione – scacchi, carte – perché per entrambi la vita altro non era che un bel gioco pericoloso. Avevo ragione, serviva la sfida alla sua fiducia, e, avevo ragione, era stanco. Solamente isolato dal mondo, in solitudine o in compagnia di qualche amico ben filtrato, sembrava rianimarsi di luce e vitalità. Altrimenti il ghiaccio più duro si impadroniva di lui facendolo sembrare ciò che non era, cupo e cattivo, anche se questo non faceva che aumentarne il fascino. Come se si difendesse da un mondo pieno di ignoranti accusatori, nei suoi discorsi echeggiava una vaga inadeguatezza derivata probabilmente da qualcosa di inconfessato che lo portava sempre a mantenere le distanze. Una sera disse che il teatro non rendeva, era ancora truccato mentre parlava e, ridendo, mi fece capire che avrebbe seriamente preso in considerazione l’idea di abbandonarlo. «Vado a cambiarmi!» annunciò. Aspettai un quarto d’ora, mezz’ora. Decisi di vedere se andava tutto bene. Bussai al separé. Niente. Allungai la testa verso destra e gli occhi verso il buio. Trovai un fantoccio con la sua faccia, lo fissai incredulo fino a quando la bambola di pezza scoppiò a piangere animandosi. Scappai. Non lo rividi mai più, né mai più lo cercai. Mi aveva già dato di che tormentarmi per tutti i giorni che sarebbero seguiti nella mia vita.»   Si voltarono tutti verso la rossa che rideva sguaiata, attendendo che lo scroscio delle risa si facesse più indulgente. Nuda, lentigginosa e dritta si avvicinò al tavolo di mogano, abbastanza perché il suo profumo di sottobosco li stordisse. Il serpente bianco, al centro del tavolo, diede rapidamente inizio al rito.   Li trovarono ancora seduti, legati l’uno all’altro dalla cera che li stringeva al collo. «Stupidi timorosi, non avevano capito che fa più male vivere.» Rimase solo l’eco della risata.   Adesso sono qua, non é stato un sogno. Sono uscito da quella casa, impregnato di ignoranza più di prima. Un bar, fatemi respirare. Cerco la strada di casa mentre un donnone mi urta con violenza. Infila i suoi occhi nei miei e diventa enorme, immensa, tutta tonda, voglio scappare ma mi afferra il braccio. Convincente e pacato il grasso avvoltoio mi dice: «Perché non lo racconti?»  Poi più sottile, più sicura: «Non hai nulla da narrare?» «vattene al diavolo!» le grido. Ride! Ma da lontano é solo una grassona. Non lo farò, non lo farò, non lo farò!   …ma che begli occhi verdi aveva.        

    Laura Massera

    Sono di Modena, città che adoro e dalla quale, per motivi di studio e di lavoro sono stata per lungo tempo lontana. Vorrei un TARDIS. Non vivo senza musica, libri e film.

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