Lo scarto

Lo scarto

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Eccola! In lontananza era stata indistinguibile dalle lievi ondulazioni chiare del suolo desertico ma, avvicinandosi, una delle immense dune si era rivelata come la larga struttura lenticolare in etilene che sigillava l’imboccatura del cratere artificiale. Leggera e resistentissima, la copertura trasparente isolava lo spazio sottostante dalle condizioni atmosferiche, dal caldo soffocante delle estati come dall’estrema rigidità dei lunghi inverni. Lì sotto, una città era stata scavata a gradoni concentrici come un immenso anfiteatro, al riparo dai ricorrenti uragani che sconvolgevano la regione.

L’uomo abbassò il viso sul piccolo che camminava dietro di lui, avviluppato in un manto, il cappuccio calato sul viso; tanto, non c’era nulla da vedere, intorno. Camminava a testa bassa reggendosi con le mani alla corda che aveva legata alla vita e che lo ancorava per sicurezza al padre.

Doveva essere distrutto, povero cucciolo, ma tenace com’era non emetteva un lamento. Il padre si accovacciò sui talloni e utilizzò il suo manto come una minuscola tenda, si guardarono negli occhi.

«È in vista, ma ancora lontana. Se sei stanco posso portarti io».

I grandi occhi castani gli sorrisero limpidi.

«Ce la faccio, padre».

L’uomo gli sfiorò la fronte con un bacio. Aveva la carnagione così chiara, quel suo figliolo, che non avrebbero sospettato l’origine di sua madre. Forse. 

L’avevano persa da così tanto che il piccolo non ne conservava alcuna memoria, e lui non gli aveva mai svelato quel segreto; così nessuno, se non lui stesso, avrebbe potuto tradirlo e farlo identificare come fuori-razza. 

Rabbrividì, perché suo padre parlava di torture e vessazioni orrende, nelle città, per tutti coloro che non erano puri. Ma inutilmente aveva sperato di poter resistere, il suo vecchio. In trent’anni il loro piccolo gruppo, così tenacemente e disperatamente attaccato alla vita, si era sfilacciato e dissolto, e non restava che arrendersi alla verità: nessuno poteva sopravvivere, ormai, nel deserto. Nessuno, se non accolto in una comunità cittadina. 

L’uomo aveva deciso di dover provare a entrare, qualsiasi fosse il prezzo; lo doveva a quel figlio della cui vita era responsabile, perché non aveva chiesto di nascere, suo figlio! Lui l’aveva generato, e ora doveva accettare qualsiasi destino pur di non vederlo morire assiderato o sciolto nell’aria incandescente di quella loro terra maledetta.

Riprese la marcia e lo prese in braccio quando capì che non poteva più reggersi in piedi: non potevano fermarsi, ormai. Non più.

Andava addensandosi sulle loro teste un uragano di quelli che facevano vorticare nell’aria ben più che povere creature leggere come loro. Arrivarono alla base della cupola quando già i venti urlavano furiosi. 

Dalla dimensione in cui gli spiriti spiano i destini dei cari che hanno lasciato, la sua donna lottava per guidarlo; l’uomo ne fu certo vedendo che una postazione di guardia era esattamente davanti a lui. Non avrebbe avuto il tempo di girare intorno alla città per raggiungerne una, fosse capitato in mezzo tra due, e non avrebbe avuto la possibilità di implorare pietà martellando di pugni la porta blindata, fosse stata solo un chilometro più in là. 

Inizialmente, pensò che nessuno l’avrebbe ascoltato, comunque. Pensò fosse finita, a un metro dalla salvezza. Ma infine qualcuno gli parlò da una sorta di citofono. Gli chiese documenti che non aveva, lui non era un interno. 

«In tal caso, l’accesso è vietato». 

L’uomo continuò a implorare, mentre l’uragano ruggiva e dal citofono provenivano segnali d’allarme e rumori di macchinari in funzione. Si chiudeva ogni presa d’aria nella cupola e calavano serrande d’acciaio su ogni apertura al livello del suolo. 

«Allontanati wastish, stiamo chiudendo»

E l’uomo pianse e spinse avanti il bambino: «Almeno lui» implorò, «almeno il bambino!»

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Eleanor si affacciò alla finestra. Posto sull’anello più largo e alto, addirittura edificato in prima fila, direttamente sulla cavea, lo stabile in cui abitava godeva di un panorama mozzafiato.

La donna fissò il cielo attraverso la schermatura trasparente, poi rivolse lo sguardo in basso, verso il boschetto che costituiva il polmone della città, piantato sul fondo del cratere a circa settecento metri al di sotto della superficie. Si riempì gli occhi del suo verde intenso, così raro e prezioso.

Il trillo di un cicalino scompigliò quel filo di pensieri vaghi, quasi sereni, rituffandola nell’impegno dell’ospedale e dell’ingrata presenza che l’attendeva.

Inizialmente Eleanor aveva pensato che il giovane affidatogli come tirocinante potesse essere un suo naturale alleato. Era un esterno-ammesso, quindi un inferiore, appena al di sopra degli infimi fuori-razza. Aveva stabilito con lui un buon rapporto e quello aveva dimostrato ottime capacità d’apprendimento. Era volenteroso e fuori dal lavoro anche gradevole. 

Come cittadina, a Eleanor era consentito praticare sesso in modo libero, e aveva concesso ad Aaron di accompagnarsi a lei diverse volte. Si era dimostrato un discreto maschio, avevano tratto da quel rapporto reciproco appagamento, ed Eleanor avrebbe potuto finire per fidarsi molto di lui, non fosse stato per una casuale scoperta.

Nel togliere dal letto la sua giacca le era capitato in mano un farmaco, un inibitore della vitalità dello sperma, un anticoncezionale maschile.

Poiché tutti i veri ammessi erano sterili, trattati con radiazioni specifiche, Aaron non avrebbe dovuto avere alcun bisogno di quel preparato. Ne dedusse che non fosse affatto chi i suoi documenti dicevano; e farsi passare per un appartenente a una categoria di inferiori aveva un possibile scopo assai pericoloso. Poteva, anzi doveva, trattarsi di una spia incaricata di sorvegliarla.

Da quella scoperta in poi Eleanor si era sentita ancora più sola. Gli sorrideva a stento, e solo per non insospettirlo.

Aaron aveva avvertito che qualcosa era cambiato, glielo aveva fatto capire, ma lei l’aveva attribuito alla stanchezza: lavorava moltissimo e questo era innegabile, non guardava mai l’orario. Come quella stessa sera, quando molto dopo la fine del turno lui la trovò ancora assorta nella lettura d’una cartella. 

«Caso difficile?»

Eleanor si passò una mano sul volto, sconfortata. Lo erano tutti, difendere la salute era complicato in condizioni così lontane da quelle naturali.

D’altronde, la rapidità con cui cambiamenti epocali avevano sconvolto la superficie del pianeta aveva negato a tutti i viventi la possibilità di evolversi per adattarsi: in un arco di tempo spaventosamente breve la biodiversità si era quasi dissolta, con estinzioni di massa di un enorme numero di specie. Che ne fosse stata solo una concausa, o l’unica responsabile, l’umanità aveva assistito alla rottura dell’equilibrio del sistema-Terra e i pochi sopravvissuti si erano ridotti a una vita malsana, che procurava continui problemi di salute.

Eleanor sospirò, raccogliendo il tacito invito a concludere la giornata lavorativa.

Uscire dall’ospedale, però, non diede sollievo alla sua stanchezza; aveva sollevato d’istinto lo sguardo verso l’alto, per riabbassarlo con una smorfia, distogliendolo dal finto cielo notturno, scrostato, che avrebbe abbisognato di un buon restauro.

Era nata in quel luogo, la Città, eppure il suo istinto la ripudiava. Era un’anomalia, lei? Gli esseri umani erano malleabili, di norma, e vivere in una dimensione dal proprio primo respiro avrebbe dovuto renderla parte di quella realtà, fargliela considerare normale.

Eppure il sangue di Eleanor pulsava amaro, insoddisfatto, sofferente. Il dolore per ciò che era stato perduto bruciava in fondo ai suoi pensieri e la predisponeva al mal di stomaco.

«L’accompagno?» aveva proposto a quel punto Aaron chiedendole il permesso.

Come ammesso, non avrebbe avuto motivo di salire verso i tre anelli superiori. Durante il giorno la cupola garantiva a quelle zone un’ottima illuminazione, così che sulle tre fasce erano distribuite, oltre alle aree residenziali, tutte le serre e le fattorie che fornivano gli alimenti. Solo i cittadini, da privilegiati, lavoravano e abitavano lì, mentre Aaron avrebbe dovuto scendere, dove si sprofondava nel sottosuolo.

Sotto il bosco, un intero livello era dedicato all’ospedale dal quale stavano uscendo. Un livello più profondo ancora accoglieva tutti gli apparati di controllo dei mille parametri vitali per la città, e sotto quello v’era infine il ghetto, il girone infernale dove sopravvivevano gli esterni-ammessi e, ai limiti del bestiale, ultimi tra gli ultimi, anche i fuori razza.

Se una pattuglia di sorveglianti avesse mai pescato Aaron sugli anelli superiori, solo, avrebbe dovuto renderne conto, e non sarebbe stata una bella esperienza.

Ma in realtà lui non rischiava nulla, Eleanor pensò furiosa. Da spia qual era, certo non temeva quelle ronde che, nel clima degenerato dei loro tempi, facevano sempre più paura persino ai cittadini.

Erano diventate squadracce che si concedevano, senza più vergogna, prepotenze e violenze gratuite. Di recente era accaduto che diverse cittadine, che camminavano sole nelle strade dei quartieri alti, fossero state violentate da un militare, con la copertura dei colleghi. 

Simili angherie, che avevano lasciato indifferente l’opinione pubblica finché rivolte contro i miserabili, acquistavano ora altro rilievo, e ci si cominciava a preoccupare della deriva di un potere con troppe poche limitazioni. Ma l’allarme si diffondeva  tardi, pensava Eleanor amareggiata, e troppo pochi, ancora, sembravano i consapevoli.

Dov’erano stati, tutti, mentre si modificavano gradualmente le norme relative alla durata degli incarichi di governo, finché l’ultimo Presidente della Confederazione era diventato, di fatto, un dittatore a vita, sostenuto da una ristretta gerarchia di militari?

«Eleanor?»

Aaron, che aveva innescato quella concatenazione di pensieri rabbiosi, era  rimasto in attesa di risposta all’offerta di accompagnarla ed Eleanor, che avrebbe voluto mandarlo al diavolo insultandolo, annuì, dominandosi. Non poteva rifiutargli senza motivo una cosa che poco tempo addietro aveva gradito, come non girare sola in certi orari. Ma si fidava di lui, allora, tanto da invitarlo anche a salire da lei.

Aveva creduto al suo stupore nell’affacciarsi alla finestra, da cui si vedeva così bene il cielo, e provato pena nel vederlo poi uscire e imboccare le scale per tornare al ghetto. 

Ripensando a quella inutile angoscia provava una tale rabbia da maledirlo: che tu possa morirci davvero, nel livello degli inferiori, come un topo intrappolato senz’aria e senza luce. 

L’idea che qualcuno, senza esserlo, si facesse passare per un inferiore era troppo odiosa per sopportarla. Come si poteva, dopo aver visto le condizioni in cui quella gente era costretta a vivere, farsi beffe della cosa? Strumentalizzarla? 

Il punto era che gli esterni-ammessi e i fuori-razza non erano considerati gente. Quando cinquant’anni prima un censimento aveva assegnato la cittadinanza, a quelli privi dei requisiti era stata offerta la sopravvivenza a patto che svolgessero quegli indispensabili, sporchi e ingrati lavori che ai superiori erano risparmiati.

Erano diventati, costoro, quanto di più prossimo agli schiavi si fosse visto nell’ultimo millennio, e vivevano in condizioni, anche abitative, indegne. Relegati nell’ultimo livello, il loro ghetto era una trappola da bestie, per la cui areazione, temperatura e illuminazione si autorizzava un prelievo di energia limitatissimo.

Certo, nelle città ogni minimo consumo doveva essere contabilizzato con rigore. Gli uomini, dopo aver dilapidato le favolose ricchezze naturali che il pianeta offriva, si erano ridotti a lottare per sopravvivere, misurando ogni centimetro cubo d’acqua potabile e ogni kw della poca energia assicurata dalle fonti rinnovabili ancora gestibili.

Eleanor credeva che ci fosse però dell’altro, nella scelta di mantenere l’ultimo livello sulla soglia minima della vivibilità: una sottolineatura della precarietà della loro esistenza, in bilico tra vita e morte, una pressione volta a tenere in ginocchio una fascia di popolazione che, peraltro, al sistema risultava assai utile.

Sapendo tutto questo, il sistematico pattugliamento del ghetto attuato dalle forze dell’ordine appariva caricaturale. Che gente così oppressa trovasse la forza di ribellarsi era tanto poco credibile che le ronde, a giudizio di Eleanor, erano piuttosto un’odiosa ostentazione di forza a beneficio dei cittadini, affinché non osassero mormorare contro il sistema.

E funzionava, l’intimidazione, visto che la gente aveva accettato con passività che il governo confederale scivolasse, senza scosse, verso un autoritarismo sempre più estremo.

Quanto ai militari, mancando all’esterno nemici che giustificassero un esercito armato, avevano rivendicato la propria ragion d’essere nella tutela dell’ordine e della legalità nelle città.

Le armi ostentate dalle ronde, di cui si sentiva ben poca necessità, venivano giustificate con la ‘protezione dei cittadini’.

Protezione da chi? ricordava d’aver chiesto Eleanor, ancora bambina.

Dai fuori-razza e dagli esterni che la città ha pietosamente accolto, le avevano risposto gli insegnanti.

Che però non esistessero più esterni da vent’anni, e che dunque gli ultimi fossero ormai ‘interni’ da più tempo di lei, Eleanor bambina lo aveva subito pensato, ma era stata istruita da suo padre a tacere e lo aveva fatto.

Che i più miseri tra gli inferiori, poi, i fuori-razza, fossero bestie semi-umane… Eleanor bambina aveva dovuto farsi una gran forza per non protestare a gran voce che era un’idiozia. Eleanor aveva saputo da sempre quanto fosse ingiusto quel giudizio perché lei stessa era, appunto, una fuori-razza.

«A un buon medico si perdona tutto, piccola» le ripeteva suo nonno, la cui identità era stata falsificata per consentirgli di prendere la cittadinanza. La sua origine straniera, altrimenti, l’avrebbe relegato nel ghetto e impossibilitato a esercitare la professione.

Nell’armadio di famiglia, quello scheletro della loro origine gemeva da tre generazioni, perché qualcuno, all’epoca, sapeva. Qualcuno che, pur d’essere curato da un ottimo specialista, lo aveva introdotto con la frode in città e che, morendo, poteva aver confidato quel segreto, perché avere di che ricattare un buon chirurgo poteva tornar comodo.

Suo padre aveva saggiamente deciso di diventare anch’egli medico, sempre ispirandosi al principio che a un buon curatore si perdonano molte cose. E vedendo nel tempo irrigidirsi la stretta sul ghetto ed enfatizzarsi l’inferiorità dei fuori-razza, aveva premuto su sua figlia perché facesse la stessa scelta.

Risalendo la cavea, Eleanor ogni sera ripensava a quell’inganno che le aveva consentito di lavorare e vivere da donna. Aveva potuto studiare e dimostrarsi un precocissimo talento della chirurgia proprio come quel nonno famoso alla cui memoria era stato intitolato l’ospedale.

Viveva in quella che era stata la casa di lui, lavorava nello stesso reparto; ma soprattutto, come lui, di nascosto curava, per saldare il suo debito con la sorte, ammessi e fuori-razza. Nel ghetto era conosciuta e amata, ed Eleanor temeva che questa sua inconfessabile debolezza fosse infine arrivata agli orecchi del regime.

Per fortuna non si era ancora fidata tanto di Aaron da coinvolgerlo, prima di scoprirne l’odiosa veste di infiltrato. D’altro canto, talvolta erano state le stesse autorità a ordinarle di scendere nel ghetto, perché la funzione degli inferiori non era irrilevante quanto si voleva sostenere: vi erano funzioni in cui, a forza di braccia, essi si sostituivano all’uso di macchine elettriche e questo aveva reso conveniente assicurarne la sopravvivenza.

Era così che, tra incarichi ufficiali e cure segrete, Eleanor aveva appreso cose che i cittadini di norma ignoravano o fingevano di ignorare. Ma il regime stava ponendo riparo anche a questa possibile fonte di imbarazzanti informazioni: stava preparando medici provenienti dal ghetto, perché gli inferiori potessero curarsi tra sé.

A causa di questo progetto aveva conosciuto Aaron, che era stato tra i fortunati a superare gli sbarramenti attitudinali, dimostrando sorprendenti qualità intellettive, per essere uno di loro. Ora si perfezionava sotto la guida di Eleanor, e finita la giornata lavorativa la scortava verso i livelli dove risiedevano i circa centomila cittadini; la scortava e ne studiava l’espressione tesa, stanca, mentre camminava sprofondata nelle sue riflessioni.

«Troppo» commentò all’improvviso quella sera facendola sobbalzare, «Dottoressa Eleanor, a me pare che lei lavori troppo».

Data la sua umile condizione, Aaron non avrebbe potuto permettersi simili commenti, eppure osava, in apparenza animato da genuina preoccupazione. «Spesso porta sovrappensiero la mano allo stomaco, lo sa?»

Altroché se lo sapeva. Lo stomaco era il suo organo bersaglio, quello sul quale ogni tensione andava a sfogarsi, come se rabbia e ansia fossero belve invisibili intrappolate nel torace, che quella sacca artigliavano furiose. Si irrigidì, davanti all’espressione innocente con cui Aaron fingeva di dolersi per lei.

«Ho grandi responsabilità» gli rispose dura.

Ed era vero. La grande speranza di tutti loro era che, al drastico ridursi dell’attività umana, il pianeta reagisse con un rallentamento dei fenomeni che l’avevano sconvolto. Secondo gli esperti avrebbero potuto tornare vivibili, nel futuro, anche territori al di fuori di quelle ristrette aree in cui miseri brandelli di umanità si erano rifugiati, in poche città sotterranee collegate da tunnel.

Si confidava che le forme vegetali e animali sopravvissute a stento in certe zone avrebbero col tempo ri-colonizzato il pianeta, approfittando dell’assenza di competizione. Loro umani sopravvissuti dovevano resistere preservando la specie fino ad allora, e come medico la missione di Eleanor era tra le più delicate.

Aaron aveva annuito.

«Hai grandi responsabilità e io sono consapevole della mia fortuna, di frequentare una delle persone più impegnate e degne di questa comunità. Ma è proprio la gratitudine che mi spinge a superare ogni limite… Eleanor, stai consumando troppo di te!»

L’uomo era passato a un tu confidenziale, non prima d’essersi guardato attorno per accertarsi che nessuno potesse sentirli. «Senti, oso parlare come farebbe un amico, nonostante sia un inferiore. Ma qualcuno deve ricordartelo: tu sei una cittadina, hai il diritto, e aggiungerei il dovere!, di avere un figlio, di trasmettergli il tuo sangue, il tuo talento e la tua intelligenza».

Eleanor continuò a camminare in silenzio come non avesse sentito. In realtà stava ancora una volta reprimendo la voglia di ribattere aspramente. Una notte in cui, dopo aver fatto sesso, erano rimasti vicini, paghi della reciproca compagnia, Aaron aveva detto qualcosa che allora l’aveva colpita duramente.

Sorridendo, aveva commentato che era una gran cosa non mettere ansia a una donna. Da ammesso, infatti, non rischiava di rendere alcuna donna, inopportunamente, madre. Aveva parlato sorridendo con le labbra, ma restando triste con gli occhi, e ad Eleanor era salito un nodo alla gola. 

Quella pratica di irradiare gli ammessi, così da sterilizzarli in modo permanente ma pulito, senza apparente violenza, la faceva inorridire da sempre. Il progetto originario del regime era stato di praticare tale sterilizzazione così che la popolazione degli inferiori si estinguesse in breve senza altri interventi. 

Presto si era realizzato, però, che quegli schiavi moderni sollevavano i cittadini da incombenze ingloriose, e si era deciso altrimenti. Si era stabilito che le loro donne, per mantenersi, potessero esercitare la prostituzione e si destinarono i figli in tal modo generati a mantenere costante il numero di abitanti del ghetto. La sterilizzazione venne limitata ai soli maschi, a rimarcare, semmai fosse stato necessario, che era loro negata una piena umanità.

Eleanor si era sentita male per Aaron, quella notte, quando lui aveva accennato alla sua infertilità, parendole di coglierne il dolore, seppellito nella rassegnazione di ciò che non si può cambiare.

Invece mentiva. Fingeva. Abilmente, tanto da coinvolgerla e farle provare cose sbagliate.

Non sbagliate perché fosse un ammesso, no, della morale comune che riteneva scandaloso, per una cittadina, abbassarsi a provare qualcosa per uno come lui avrebbe potuto infischiarsene. 

Cose sbagliate proprio perché un ammesso non era, invece, perché era una spia del sistema che col discorso sui figli voleva certo metterla alla prova: i cittadini dovevano essere fieri del loro sangue, i cittadini avevano il sacro dovere di perpetuare la specie.

Io non lo darò, un figlio, a questo sistema!, si ribellò furiosa nei suoi pensieri, ormai a poche rampe da casa. Non darò la vita a un essere umano per vederlo diventare un abominio come le iene che comandano nel nostro mondo. Ché se poi, invece, un figlio mio crescesse con una mente limpida e un cuore generoso, dovrebbe vivere come me, con l’orrore per ciò che è accaduto e accade.

Intanto, Aaron si mordeva un labbro; sulla soglia dei quarant’anni non hai molto tempo ancora, sembrava volesse dirle dolente: Tu che puoi… 

«Hai così tanto da dare e insegnare!» osò aggiungere, mentre si fermavano al portone.

Eleanor perse la pazienza, a quell’ennesima provocazione; tese insensibilmente i muscoli della mascella, gli occhi parvero stringersi e sottili rughe apparvero ai loro angoli.

«La mia vita non riguarda certo una persona come te. Sta al tuo posto, wastish».

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La prima parola, era stata.

La prima che, bambino, si era sentito rivolgere in città, pronunciata con lo stesso disprezzo. Persino il suo suono comunicava un senso di repulsione: Wastish! Scarto. Spazzatura.

Non ricordava nitidamente, forse l’inconscio aveva rimosso una parte di avvenimenti: c’erano suo padre e il deserto, confusamente, e il ricordo della grande fatica, della lotta che ogni singolo giorno vissuto fuori esigeva. Poi, cominciavano i ricordi del dentro. 

E cominciavano così: lui era wastish. Parola mai sentita prima, ma dal primo istante dolorosamente intesa, per l’espressione e il comportamento di chi l’usava. Era stato chiuso in uno stanzino buio in cui aveva dormito, esausto. Non aveva invocato il padre, o almeno non lo ricordava. Solo, aveva dormito.

Da adulto aveva saputo che l’uomo di guardia aveva pagato l’atto di clemenza verso di lui. Le regole erano ferree, l’ingresso alla città era vietato a chiunque non avesse documenti.

Ma già da anni nessuno più si trascinava fino alle loro  porte, si riteneva che non ci fossero ancora sopravvissuti ‘esterni’, e dunque l’uomo era stato colto molto di sorpresa e aveva trasgredito agli ordini.

Era stato punito con severità. La popolazione che ogni città poteva permettersi era numericamente fissata in modo rigido, la difficoltà di approvvigionamento di energia e risorse era tale che non ci si poteva discostare dai limiti prefissati e a ogni cittadino era consentito avere un solo figlio, nell’arco dell’intera vita. L’uomo fu sterilizzato, perché facendo entrare lui, bambino, era come se quello avesse usato della sua facoltà di generare, e dunque non poté più usufruirne.

Quanto ad Aaron, fu affidato a una coppia di ammessi ormai anziani.

Aveva già appreso dal padre, almeno in modo sommario, la storia del loro mondo; sapeva che nel passato l’intera terra era abitata, ma che quasi all’improvviso sconvolgimenti climatici avevano reso immensi territori sempre più inospitali.

In un pianeta dal clima impazzito gli umani si erano infine contesi, armi in pugno, le poche aree difendibili dagli assalti della natura. Luoghi ai margini delle direttrici degli uragani che, mostruosi, erano generati con devastante continuità da un ciclo delle acque accelerato. In quei luoghi la tecnologia era riuscita a costruire insediamenti protetti dalle temperature estreme che s’inabissavano o s’innalzavano di continuo, come un tempo accadeva solo nei deserti.

Condizioni sempre più impossibili avevano innescato violenze di proporzioni mai viste, con gli uomini ormai ridotti a naufraghi appollaiati su a una zattera, cui paia unica soluzione logica inabissare chi è aggrappato intorno, perché la zattera non affondi sotto troppo peso. Popolo contro popolo, al grido Mors tua vita mea.

Con l’obiettivo di salvare l’umanità furono perpetrati genocidi di massa; in un affondo nella barbarie si infransero ideali e conquiste di civiltà. Di fronte alla propria salvezza divenne sacrosanto proclamare: ‘Prima noi’. Muoiano loro. Muoia chi non è dei nostri. 

Bianchi contro neri. Asiatici contro africani. Atei contro religiosi. Buoni contro cattivi. Civili contro incivili.

Il padre di Aaron elencava con le lacrime agli occhi: «giusti contro peccatori, sani contro malati, perfetti e potenti contro ignoranti e disarmati».

Non si era mai visto tanto odio reciproco, tanta furia nella caccia alle etnie, al sangue straniero, al fuori-razza, nemico e indegno di vivere. Quelli che sopravvissero non si ritenevano più semplici uomini: erano i PURI, gli eredi della sapienza e i custodi della scienza, che offriva l’unica soluzione praticabile: le città sotterranee.

Nessun luogo era più vivibile all’esterno, non potevano esistere eremiti, né fuoriusciti, né dissidenti. Il padre di Aaron era stato l’ultimo.

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Il giorno dopo, arrivata da poco in ospedale, Eleanor stava per iniziare le sue visite con Aaron a fare da assistente, quando s’erano sentite voci concitate e rumori insoliti. 

Dei militari avevano fatto irruzione chiedendo a gran voce di lei, un infermiere aveva rapidamente fatto loro strada. Si vide circondare e avvertì netto il cuore perdere un battito. Mantenne un atteggiamento controllato e con una voce che suonò appena più roca dell’abituale chiese cosa desiderassero.

«È un’emergenza» si sentì rispondere, «deve seguirci all’istante».

Al suo fianco, anche Aaron era sbiancato. «La dottoressa avrà bisogno di…»

«Servono solo le sue mani» troncò ogni discorso il comandante della pattuglia, afferrandola con malagrazia per il braccio.

«Allora le conviene non strattonarla o procurarle alcun danno fisico» insorse Aaron, ed Eleanor gliene fu grata perché il militare la mollò, a quella osservazione.

«Lei chi è?» ruggì però l’ufficiale, non abituato certo a essere affrontato così da un qualsiasi civile.

«È il mio assistente» intervenne la donna. Cominciava a riprendersi dallo spavento; se serviva, come pareva, il suo intervento professionale, la cosa era diversa da quanto aveva temuto. Ad Aaron invece quella urgenza sembrava far l’effetto di un terribile presagio, a giudicare dall’espressione tesa.

«Se dovrò operare mi serve» aggiunse d’istinto Eleanor. L’ufficiale le scoccò uno sguardo bieco, ma non replicò e indicò la direzione. Dal suo cipiglio si capiva che non fosse il caso di indugiare. I due sanitari furono condotti in tutta fretta fino all’ingresso del tunnel per la Capitale.

Eleanor non aveva mai visto un tunnel aperto, perché i contatti tra le città erano limitati e andavano preventivamente autorizzati dalle parti. La percorribilità dei tunnel comportava costi, di illuminazione e soprattutto di aerazione, troppo elevati per essere usati di frequente.

Ma la situazione doveva essere veramente estrema perché non solo il tunnel era aperto, ma ad attenderli vi era un veicolo a motore.

Ben pochi della loro generazione ne avevano mai usato o anche solo visto uno: era un’auto sportiva, con già seduto al volante un uomo in divisa.

I militari intimarono loro di salire. Tutto accadde in tempi frenetici, Eleanor si trovò sprofondata in un sedile di pelle, chiusa nello spazio posteriore del veicolo.

L’aria nell’auto era stantia, la pelle dei sedili screpolata, rigida e impolverata. L’odore di combustibile era prepotente ma, nello spazio ristretto, alle narici le arrivava anche il sentore di sudore dell’autista, che si guardava attorno con scatti bruschi, nervosi. L’auto partì immergendo i passeggeri in una penombra inquietante.

Il rombo del motore era assordante e Aaron si protese in avanti verso il guidatore. Poi armeggiò dalla sua parte e tirò su il suo finestrino.

Eleanor lo imitò e il rumore diminuì, restando un cupo frastuono di sottofondo. Rare, fioche luci presero a sfilare ipnotiche ai loro fianchi, mentre i fari della macchina bucavano per qualche metro il buio avanti, aggredendolo a una velocità che le parve folle.

Si chiese se l’autista non li avrebbe schiantati contro una curva. Aaron intanto aveva preso a parlare.

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Su una cosa la donna non si era ingannata: per Aaron la presenza dei militari era stato il presagio d’un possibile sciagurato fallimento. Lui solo sapeva, infatti, tra i presenti, che qualcosa di assai importante avrebbe dovuto essere appena accaduto, in una delle Città confederali.

Mentre Eleanor sedeva rigida aggrappata al sedile, francamente terrorizzata, svuotata dal repentino concatenarsi degli eventi, Aaron scambiò con l’altro uomo una serie di segnali convenuti.

Inizialmente, la donna colse appena la stranezza del dialogo; poi qualcosa le disse che i due uomini si scambiavano battute senza senso.

Tornò vigile proprio mentre il guidatore alzava gli occhi a scrutarla dallo specchietto retrovisore.

«Garantisco io per lei» affermò risoluto Aaron, e lei ricambiò sbalordita lo sguardo dell’autista, che pareva valutarla. «Puoi parlare. Cosa è successo? Il colpo è fallito?»

L’uomo riportò lo sguardo sulla strada, mentre Eleanor si voltava a fissare Aaron, colpita dall’autorità con cui chiedeva.

«Tutto era andato secondo i piani» rispose cupo il guidatore. «Alla riunione erano presenti tutti coloro che avevamo previsto e l’esplosione li ha coinvolti tutti, senza vittime ulteriori. Eppure, per fatalità, una scaffalatura ha in parte protetto proprio il Presidente dal crollo della struttura. È l’unico sopravvissuto, anche se versa in condizioni molto critiche. Finché è vivo, il potere affidato al Vicepresidente è limitato all’ordinaria amministrazione. Se poi dovesse riprendersi, tutto sarà stato inutile e anzi, di certo la stretta aumenterà e partirà la caccia all’uomo. Finora non si sospettava che ci fosse una forza organizzata contro il regime, ma ora ci siamo scoperti».

La donna sbarrò gli occhi. Le parole dell’autista le dipingevano una realtà totalmente inaspettata.

«Quindi il Presidente è grave e chiamano la dottoressa nella speranza che possa salvargli la vita» sintetizzò Aaron.

«E se lo salva è il crollo di tutte le nostre speranze» confermò l’altro, «si cercherà chi ha organizzato l’attentato. Si risalirà al solo che possedeva le informazioni circa la riunione e poteva organizzare la falla nella sicurezza. Verrà scoperchiato il vaso e saremo tutti morti, fino all’ultimo. Sarà anzi opportuno toglierci di mezzo da soli, prima di finire tra le mani degli inquisitori».

Eleanor sentì il sangue pulsare alle tempie. «Di cosa state parlando?» chiese con un filo di voce, cercando lo sguardo di Aaron. Era sconvolta.

«Quanto tempo abbiamo fino alla Capitale?» chiese lui per tutta risposta all’autista.

«Mezz’ora. Ma…» quello alzò gli occhi nello specchietto e gocce di sudore gli imperlavano la fronte, «non è previsto che noi si arrivi. La nostra sola speranza è che LUI non sopravviva; ora ha intorno la protezione dei fedelissimi, non possiamo più pensare di raggiungerlo. E se lei può salvarlo allora…»

Aaron sospirò e socchiuse gli occhi. Sembrò raccogliere i pensieri, poi si voltò verso la donna e le prese una mano, con gentilezza.

«Eleanor, mi dispiace averti ingannato, ma io non sono un semplice ammesso» cominciò. «Il mio compito era avvicinare persone da reclutare per il progetto, e questo richiedeva che ti conoscessi bene, per capire se eri adatta. Non potevamo concederci passi falsi, come immaginerai».

La donna tentò di schiarirsi la voce, si sentiva annebbiata. «Continua» disse.

«Prima rispondimi sinceramente: se potessi, cambieresti qualcosa di questa nostra società? Stiamo sopravvivendo, nonostante le condizioni sconvolte del mondo, quindi potresti anche rispondermi che tutto va nel solo modo possibile».

Si chiese se le stesse domandando, seriamente, se quella società le piacesse.

A lei, che era scesa nel ghetto. Che aveva curato inferiori bastonati dalle ronde, per uno sguardo non abbastanza rispettoso.

A lei che aveva visto le fuori-razza nere partorire e sperare nella pelle chiara del piccolo, pregando che somigliasse solo al padre cliente. E piangere amaramente perché s’era irrimediabilmente scurito, denunciando il suo sangue semi-umano.

«Sai bene cosa cambierei, Aaron» rispose con un filo di voce.

«Sì, hai ragione, lo so» e le sorrise. «Sappi allora che più di quanti tu creda, cambierebbero. Non tutto è andato perso, per fortuna, della nostra umanità. Se la stretta sugli inferiori si è fatta così pesante, è perché i militari hanno avuto sentore del dissenso che sta crescendo fra i cittadini. Sta maturando la coscienza che sono stati infranti i limiti della ragione, e del cuore. Abbiamo simpatizzanti ovunque, pronti ad accettare una riforma del sistema attuale. Persino tra i militari c’è chi riporterebbe il potere a una forma democratica, ridando dignità umana agli inferiori. Tra questi, poi, si è creata una resistenza attiva che, da anni, progettava un attentato ai danni dello zoccolo duro della gerarchia militare. Arrivato bambino in città, io fui affidato a una coppia di esterni anziani che erano tra i fondatori del gruppo di resistenza. Mi istruirono, riuscirono perfino a evitarmi le irradiazioni. Abbiamo impiegato due decenni a reclutare inferiori capaci e cittadini ribelli, tanti da poter sperare nella riuscita del colpo. E ora siamo a un filo dal successo; un filo attaccato al respiro del Presidente. Se si salva, ci saremo scoperti e sarà la fine del progetto. Una fine violenta, puoi immaginare la reazione dei militari. Se invece lui muore… il potere andrà nelle mani di un amico. Il Vicepresidente è il più potente e convinto dei nostri. La sola ragionevole speranza di cambiamento. Hai capito quanto ti ho detto Eleanor?» 

La donna sembrava aver smesso di respirare.

Pensa, ripeteva a se stessa. Ma troppe idee le si affollavano nella mente, non riusciva a ordinarle in un unico quadro. Aaron era una spia, questo lo sapeva. Ma di una fazione che non mi aspettava esistesse.

Resistenza. Progetto. Cambiamento. Umanità. Conversione.

Che però, passava per la morte.

Attentato. Esplosione. Zoccolo duro. Persone uccise.

«Chi vi garantisce che il Vicepresidente sia dei vostri?» chiese mentre infine cominciava a dare un ordine alle informazioni, «come sapete che non vi abbia usati per disfarsi del Presidente e dei suoi collaboratori più fedeli e sostituirsi semplicemente a lui, nuovo dittatore e magari peggiore del primo?»

Aaron e il guidatore si guardarono nuovamente attraverso lo specchietto, lei ebbe immediata la sensazione d’aver centrato un punto dolente.

«Nessuno può garantircelo Eleanor» riconobbe Aaron, «ma in quest’opera che stiamo tentando, stiamo mettendo le nostre vite nelle mani gli uni degli altri. Credere e concederci fiducia a vicenda è necessario, o la speranza di cambiare è morta prima di vedere la luce. Noi crediamo che lui sia sincero, ci ha protetti concretamente, e se abbiamo potuto arrivare a tanto è stato per il suo appoggio. Potrebbe, sì, essere un traditore. Ma non lo crediamo. Ci siamo fidati e stiamo rischiando il tutto per tutto. Anche di te, noi ci stiamo fidando» e indicò se stesso e l’autista. «Se non sei quella che penso, il lavoro di decenni, la vita e le speranze di tutti gli inferiori potrebbero andare bruciate. Ti rendi conto di quanto io creda in te?»

Eleanor ebbe un brivido. Aaron le stringeva la mano e la guardava negli occhi, e tutto quello che il suo istinto aveva sentito in lui l’avvolgeva, caldo come un abbraccio.

Poi fu come se le si snebbiasse la vista e vide il punto. Un uomo stava morendo. A lei avrebbero imposto di salvarlo.

«Cosa mi stai chiedendo, Aaron, di uccidere il Presidente? Di concludere il vostro progetto, che il destino ha ostacolato?»

Aaron scambiò di nuovo uno sguardo con il guidatore.

«No. Non ti chiederei mai di uccidere qualcuno. Semmai, ti sto chiedendo di salvare la vita di tutti noi. Tu hai visto come viviamo. Se il dittatore muore, avremo una possibilità. Calcola, Eleanor! Per ogni città confederale, migliaia di esterni e fuori-razza. Quattromila chiusi solo nella nostra. Schiavi, siamo! Ci tengono vivi solo perché gli facciamo i lavori più sporchi! Hanno ridotto le nostre donne a prostitute, concedendo loro quell’unica possibilità per mantenersi! E dopo l’attentato, forse sarà deciso che rappresentiamo un rischio, dopo tutto. Forse chiuderanno i ghetti e fermeranno le pompe. Forse ridurranno ogni ultimo livello a un cimitero semplicemente togliendoci l’aria. Possono bastare poche ore, un lavoro sbrigativo e pulito. Sigillando i livelli non servirà neanche preoccuparsi di smaltire i cadaveri».

Chiuse gli occhi, inorridita all’evocazione di quello spettacolo.

«Eleanor, io sono cresciuto meditando su questo. Domandandomi fin dove potevo spingermi, chiedendomi se per salvare la mia vita e quella della mia gente potevo arrivare a uccidere. Ho avuto anni per capire cosa sarei stato pronto a fare. Tu hai venti minuti. Potrebbe essere che nel frattempo sia morto. Potrebbe essere che nell’operare ti renda conto che salvarlo sia impossibile, anche per te. Ma se arrivasse il momento di scegliere, devi dirmi ora cosa farai. Perché io mi fiderò di te, e accetterò la tua parola e la tua decisione. Se mi dici che non ce la farai, che non potrai far altro che tentare di tutto, come fosse una vita qualsiasi… Se credi che lotterai come ti ho visto fare per ogni paziente che è arrivato nella tua sala operatoria, cittadino o militare o fuori-razza che fosse… Allora rispetterò la tua scelta, e ti eviterò di dover affrontare la tua coscienza».

La donna si sforzò di mettere a fuoco il suo viso, nella penombra. Una delle rare luci accese che sfilavano ai fianchi dell’auto lo illuminarono un attimo, e vide la tensione sul suo viso. Il dolore. L’amore, le parve, con cui la guardava.

Ora che non abbassava gli occhi, ora che la fissava intensamente e che era veramente se stesso.

«Come farai a evitarmi una scelta?» chiese sottovoce.

«Lo hai sentito prima. Già in partenza si è previsto che noi si possa non arrivare. Se tu sei la possibilità che il Presidente sopravviva, allora…»

Sentì risalirle dallo stomaco un fiotto di saliva acida.

«Questo è un ricatto!»

«No! No, te lo dico per offrirti un modo per tacitare la coscienza… Sapendo questo, potrai dire a te stessa che hai agito per legittima difesa, che hai dovuto scegliere tra la tua stessa vita e la sua».

«Se ti dicessi di sì, e appena scesa dalla macchina vi denunciassi?»

Aaron le lasciò andare la mano, e lei provò istantaneamente freddo, sola come mai, chiusa in una scatola d’acciaio soffocante.

«Lo faresti?»

«E tu mi uccideresti?» chiese di rimando.

Aaron tirò le labbra, in un tentativo di sorriso. «No, io non potrei. Però rifletti che forse avrai presto la vita di quel dittatore tra le mani, e potrai lasciarla andare o trattenerla. E rifletti che la sua vita, se lo salverai, significherà la morte di migliaia di noi. Ormai sai troppo per invocare il destino e affidarti a lui: qualsiasi cosa farai, sarà una precisa scelta».

Eleanor sentì l’esofago bruciare e sapore di sangue in bocca. Uccidere un uomo. Un paziente. Con le sue stesse mani. Forse inutilmente, poi. Forse quegli ingenui avevano solo spianato la strada a una belva peggiore di lui.

Scosse la testa, furiosa. 

L’autista la stava fissando dallo specchietto, presto le luci del tunnel si sarebbero ravvicinate. L’uscita era vicina. 

Avesse rialzato lo sguardo, la donna avrebbe notato le nocche bianche, per quanto l’uomo stava stringendo le mani sul volante. Quel suo scuotere la testa, lui l’interpretò come un rifiuto e giudicò che non avevano altro  tempo per insistere.

«Non lascio un figlio col mio sangue. Peccato, era buon sangue coraggioso»  disse ad alta voce, e sterzò con violenza verso la parete schiacciando il pedale dell’acceleratore.

Questo articolo ha un commento

  1. Friedrich L. Friede

    Bello! Come medico a mia volta, il dilemma morale, lo sento particolarmente mio. Mi ha stuzzicato un certo parallelismo con Asimov, Eto Demerzel e la creazione della quarta legge della robotica: si possono infrangere i propri principi dogmatici in nome di un bene più grande? (Purché sia certo…)

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